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#VivaSheherazade – L’Arabia Saudita, il paese delle eterne minorenni. L’intervista a Michela Fontana


di Martina Pagano (CriticaLetteraria, 6 settembre 2015)


 – Ad Aisha non piace il nero. Gira senza il velo, ma tiene l’abaya sul sedile dell’auto nel caso dovesse affrettarsi a indossarla.

Ad Aisha non piace il nero. Gira senza il velo, ma tiene l’abaya sul sedile dell’auto nel caso dovesse affrettarsi a indossarla. Vive a Dammam perché è stata allontanata dalla capitale, Riad.
Siamo in Arabia Saudita, il paese dei paradossi in cui lusso e ricchezza fanno da contrasto a norme religiose severissime che riguardano in particolar modo le donne. Le donne non possono guidare, non possono andare in bici, sono separate dagli uomini nei luoghi pubblici, ogni decisione dipende da un guardiano che sindaca sulle loro vite.
Ed è un paese di paradossi perché la sovrapposizione tra Stato e religione è pressoché totale e capire quali siano i confini tra le due istituzioni appare molto difficile. L’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo in cui a ogni donna, anche straniera, è proibito utilizzare l’auto, un divieto non di certo indicato nel Corano.
Si tratta di una delle tante norme non scritte che, tuttavia, viene fatta applicare con estremo rigore da parte dei religiosi. Su questo e altre restrizioni vigila una polizia, anch’essa religiosa, che rimanda ogni infrazione ai giudici il cui compito è far rispettare la legge islamica, la Sharia, letteralmente ‘strada battuta’. Niente di più chiaro.

Michela Fontana, saggista e giornalista, conosce bene l’Arabia Saudita. Ha vissuto a Riad insieme al marito dal luglio 2010 al dicembre 2012 per ragioni lavorative. Durante il suo soggiorno, non solo ha sperimentato che cosa significhi essere una straniera nel paese più intransigente tra quelli islamici, ha voluto conoscere coloro che ogni giorno, per una questione di genere, si imbattono in obblighi e limitazioni,. Le donne.
Il suo libro Nonostante il velo, pubblicato quest’anno da VandA.epublishing, è una galleria di ritratti tutta al femminile attraverso cui capire che cosa voglia dire nascere donne in Arabia Saudita.
Al telefono Michela mi ha raccontato la sua esperienza, gli incontri, le impressioni e quello che vivere a Riad le ha lasciato.

Hai avuto subito l’idea di raccogliere le testimonianze delle donne saudite di Nonostante il velo?
Mi era stato detto che la condizione femminile in Arabia Saudita fosse varia e interessante. Ho voluto approfondire. Non è stato semplice mettere insieme le storie, soprattutto perché dovevo capire se le protagoniste fossero disponibili a raccontarsi. Si trattava di trovare il ‘tono giusto’ con cui avvicinarle e conoscerle.

Come sei riuscita a raccogliere le storie del libro?
Era stato uno scrittore inglese a parlarmi della celebre manifestazione per il diritto alla guida del 6 novembre 1990, quando a Riad una cinquantina di donne si misero al volante per protestare contro il divieto a usare l’automobile. Essendo uomo, per lui non era stato possibile intervistare quelle donne coraggiose che avevano compiuto un gesto così provocatorio e destinato a essere ricordato.
Sono partita conoscendo le donne più aperte, quelle di ceto elevato, che avevano studiato all’estero, molto spesso attiviste impegnate per i diritti delle altre saudite. Ma ho voluto incontrare anche le donne comuni, quelle che conducevano una vita ordinaria e senza privilegi.
Tuttavia, per nessuna è stato semplice: riuscire a entrare in contatto con le donne saudite richiede molto impegno.

Molte delle donne che hai incontrato sono emancipate, istruite, si ribellano contro l’establishment del loro paese, viaggiano e ricoprono ruoli professionali importanti. Possono permettersi di fare tutto questo a che prezzo?
In Arabia Saudita la famiglia di appartenenza rappresenta un privilegio. Avere le spalle coperte da un parentado facoltoso consente di esporsi. Certamente queste donne sono malviste dal governo e dai religiosi. Le attiviste esistono, ma non devono superare la linea rossa se vogliono continuare a vivere in Arabia Saudita e non essere perseguitate o addirittura minacciate di morte. L’alternativa è il carcere o iniziare una nuova vita altrove.
Aisha, la fautrice della manifestazione del 1990, proviene da una famiglia benestante, ma dopo quell’episodio fu interrogata e costretta a lasciare Riad per sempre. Le persecuzioni nei suoi confronti continuarono obbligandola a trasferirsi all’estero per un periodo.
Nel 2011 la lotta per il diritto alla guida venne ripresa da una nuova generazione di attiviste, in particolare dalla combattiva Manal al-Sharif, dipendente della Saudi Aramco (ndr la più grande azienda petrolifera mondiale con sede a Dhahran nella Provincia Orientale del paese) che diffuse in rete un video che la ritraeva alla guida.
Non è difficile immaginare come andarono le cose: Manal venne stata arrestata e costretta a scusarsi. Non finì qui perché, quando l’anno successivo la sua notorietà la portò a Oslo a ricevere un premio per l’impegno civile, i sauditi la minacciarono di morte facendole perdere il posto di lavoro all’Aramco. Oggi vive fuori dal paese.

Come vive, invece, una donna comune in Arabia Saudita?
Ogni donna, a prescindere dalla discendenza, ha un guardiano (wali amr) che, a seconda dei casi, può essere il padre, il marito o il maggiore dei figli maschi.
Ancora una volta le tradizioni contano molto. In base alle consuetudini familiari le donne devono indossare un’abaya più o meno lunga (il tradizionale soprabito nero fino ai piedi), coprirsi il volto con il niqab (una mascherina che lascia scoperti solo gli occhi) o anche le mani con guanti neri. Le abitudini possono variare, ma le donne in Arabia Saudita hanno l’obbligo di velare sempre il capo con l’hijab.
La segregazione di genere è particolarmente rigida: la maggior parte dei luoghi pubblici ha entrate separate per uomini e donne e nei ristoranti le donne possono sedersi con il marito o un parente stretto oppure con le amiche in un’area dedicata.
E poi c’è la questione della guida. L’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo in cui le donne non possono guidare, nemmeno le straniere. Questo costituisce un problema non da poco perché si ritrovano nella necessità di dover essere accompagnate ovunque. È possibile ricorrere a un autista tramite le agenzie addette, ma molte non possono permetterselo. Una ragazza mi raccontava che nessun parente fosse in grado di darle un passaggio al lavoro, l’unico uomo era il nonno novantenne. Dovette rinunciare all’incarico.
Il punto è che non esistono nemmeno i mezzi pubblici. Niente autobus, niente tram perché i passeggeri maschi e femmine sarebbero costretti a mescolarsi. Di recente a Riad hanno iniziato i lavori di costruzione della metropolitana che, naturalmente, avrà ingressi separati.
A tutti i divieti e imposizioni si aggiunge il controllo severissimo della polizia religiosa, i mutaween.
Non è un caso se secondo un detto ‘in Arabia Saudita è tutto proibito tranne quello che è permesso’. Facendo due conti, praticamente niente.

Ci sono donne che, però, vivono bene le loro tradizioni…
In Arabia Saudita il culto ufficiale è il wahhabismo, un’interpretazione dell’Islam molto rigorosa. Il ruolo della religione è pervasivo, nelle scuole ci si dedica allo studio del Corano per cinque ore al giorno.
Cinque sono anche le volte in cui i musulmani pregano quotidianamente, ma in Arabia Saudita durante i momenti della preghiera (salat) tutto si ferma: per circa venti o trenta minuti si smette di lavorare, si interrompe qualsiasi attività. È la normalità.
E anche per le donne è così. Non provano fastidio a indossare il velo, non si meravigliano della segregazione sessuale e accettano la poligamia. C’è una sorta di naturale rassegnazione. Direi che le donne saudite amano il quieto vivere.

Potresti spiegarmi la differenza tra l’applicazione del Corano e dei principi della Sharia, la legge islamica?
L’Arabia Saudita è forse l’unico paese al mondo in cui la legge del posto corrisponde alla Sharia che si basa sul Corano e sugli hadith, cioè gli atti e i detti del profeta Maometto.
Nonostante il governo abbia emanato delle leggi su materie specifiche, la Sharia regola moltissimi aspetti della società, in particolar modo in merito al diritto di famiglia. Un esempio è, come si diceva, la poligamia.
La Sharia è presente in tutti i paesi di religione islamica, tuttavia la sua interpretazione può variare da un’applicazione più rigida a una più soft. È certo che la poca tolleranza possa essere molto rischiosa e un fenomeno come l’Isis ne è la prova.

In Nonostante il velo racconti di molte donne scrittrici. Quanto conta per le saudite la letteratura?
Oggi per le donne il romanzo è un potente mezzo di espressione. Naturalmente, a causa della censura, pubblicano le loro opere fuori dal paese, ma il governo e i religiosi trovano il modo per leggerle.
Scrivere non permette solo di denunciare la condizione femminile del paese, è anche uno strumento attraverso il quale mostrare la propria personalità non potendolo fare nella vita quotidiana.
L’esempio più interessante è stato Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea. Pubblicato in Libano nel 2005, è il romanzo di un’allora ventitreenne sulla vita delle coetanee in Arabia Saudita, un messaggio per raccontare, da un lato, la normalità delle aspettative delle ragazze saudite, ma dall’altro, per far luce sui limiti a cui esse sono costrette dalla società.
In generale, sono molte le intellettuali che si servono della scrittura per poter modificare certi aspetti del loro paese, sono donne che hanno scelto di vivere in Arabia Saudita o in nazioni islamiche perché, malgrado tutto, hanno a cuore le proprie radici.

Durante la tua permanenza in Arabia Saudita hai conosciuto le storie di tante donne diverse tra loro, ma hai anche visto con i tuoi occhi una società opposta alla nostra. Che cosa ti sei limitata a osservare e cosa, invece, ti sei sentita di giudicare?
Nonostante il velo non è nato per dare giudizi perché quello che interessava a me era capire. Malgrado ciò, è doveroso avere una propria opinione. Un’abaya non è un metro di valutazione, ma un credo per cui le donne rimangono delle ‘eterne minorenni’, quello sì che va giudicato. Perché una donna saudita non può guidare? Perché rischia il carcere se pretende dei diritti?
Se facciamo un paragone con l’Occidente, allora perché una donna saudita in Europa può vestirsi come desidera (anche se quasi tutte portano almeno il velo per non far parlare di sé una volta rientrate a casa), mentre una straniera nel loro paese deve indossare l’abaya? Perché una donna saudita all’estero può prendere la patente e guidare, ma in patria l’auto è negata anche alle straniere? Perché noi offriamo libertà di culto e per i sauditi esiste solo l’Islam?
È giusto andare nel profondo di faccende come queste però dichiaro con fermezza che le culture si debbano rispettare reciprocamente. Nel mio paese esiste la libertà di espressione ed esiste la sacrosanta separazione tra stato e religione. Tutto questo va difeso agli occhi altrui.
Luoghi come l’Arabia Saudita devono necessariamente arrivare a un’apertura maggiore.

Cosa ti sentiresti di consigliare a una donna che dovesse trovarsi a vivere in Arabia Saudita?
Le direi di non avere pregiudizi e di non pensare subito sia un paese oppressivo. Le suggerirei di cercare il contatto con le altre donne perché sono incontri che l’arricchiranno, come è stato per me.
Ho vissuto in tante parti del mondo e ho imparato quanto si possa apprendere da una cultura diversa senza giudicare. Bisogna saper coglier il bello persino in un paese complesso come quello di cui racconto nel libro, con paesaggi meravigliosi e persone che sanno essere anche molto ospitali.
Per me è stata un’esperienza unica. Sono ritornata dopo circa un anno grazie alla conoscenza con una coppia di amici stranieri, ma si è trattata di un’occasione difficilmente ripetibile perché il turismo in Arabia Saudita, come molto altro, non è concesso.

L’autrice
Michela Fontana, giornalista e saggista milanese, ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese e in inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.

La casa editrice
VandA.epublishing è una casa editrice digitale e indipendente fondata a Milano nel 2013 da Vicki Satlow, Angela Di Luciano e Silvia Brena, professioniste del settore editoriale.
Oltre a pubblicare una grande varietà di proposte letterarie, l’interesse di VandA è, sin dall’inizio, quello di dare spazio ad autori emergenti o del passato puntando su approfondimento e originalità. Inoltre, grazie alla sostenibilità del formato digitale dà la possibilità di rimettere in circolazione libri altrimenti tagliati fuori dal mercato.