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Nonostante il velo. Il reportage emozionale di Michela Fontana


L’angolo di Key (12 febbraio 2019)


– Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?

Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?
Che storia si cela, qual è il suo pensiero. Sono tutte domande che a me, personalmente, vengono in mente quando mi trovo di fronte ad una donna che indossa questo simbolo. Si tratta dell’ hijab, un velo nero che nasconde i capelli, le orecchie e la testa.
E come vive quella donna, nonostante indossi il velo?
Il libro che leggete nel titolo ce lo svela.
L’intervista e la recensione che vado a presentarvi mi hanno conquistata molto. Perché il libro mi ha conquistata, e sono sicura che piacerà anche a voi. Specialmente se amate libri scritti bene da croniste che con la professionalità e l’etica giornalistica raccontano storie, culture e vite a noi lontane, ma che meritano la nostra attenzione.
Il libro in questione è “Nonostante il velo” di Michela Fontana, edito da VandA ePublishing.

Un libro corposo ma per nulla pesante, come la fattezza potrebbe far pensare.
È a dir poco strepitoso. Scritto divinamente da una brava (lo si capisce dal tipo di scrittura) cronista che con eleganza, intelligenza e rispetto, è entrata in punta di piedi in una società culturalmente ostica alle donne, come quella araba, e ha saputo raccontarla al meglio.
Un approfondimento giornalistico bene accurato, che non tradisce l’umanità della donna-giornalista Michela Fontana.
Si legge benissimo. Pur non conoscendo la sua voce, è come se leggendolo fosse davvero lei, Michela, a raccontare le donne che ha incontrato.

Insieme con l’autrice vorrei approfondire alcuni aspetti, per cui ecco la nostra chiacchierata:

Michela, due anni vissuti a Riad inseme a suo marito che era lì per lavoro. Cosa le è rimasto di quella esperienza una volta rientrata in Europa?
Mi è rimasto un legame ideale con le donne saudite, molte delle quali ho trovato coraggiose, intelligenti e pronte a vivere nel futuro. Mi è anche rimasta una maggiore comprensione di cosa significhi vivere in un paese islamico conservatore e come sia difficile per le saudite emanciparsi  davvero dalle loro tradizioni patriarcali. In effetti noi diamo per scontato che il nostro modello di vita occidentale sia attraente, ma per molte donne che ho intervistato la nostra libertà non è necessariamente considerata un valore positivo. La  realtà della società saudita è molto più complessa e contraddittoria dei luoghi comuni basati su conoscenze superficiali.

Che significato hanno in quelle terre i concetti di intraprendenza e
evoluzione al femminile?
In Arabia Saudita oggi direi che essere intraprendente per una giovane donna significa voler studiare, cercare un lavoro e aspettare a sposarsi per poter finire gli studi. Vuol anche dire resistere alle pressioni famigliari per avere molti figli e cercare di avere una certa indipendenza economica. Naturalmente la società saudita è variegata e ci sono famiglie ancora estremamente conservatrici. Insomma, non tutte le donne saudite vogliono mettersi al volante o fare a meno del loro “guardiano” (padre marito fratello), che ha potere assoluto su di loro. Questo però lentamente cambierà e sempre più donne vorranno “ emanciparsi” senza però andare contro i dettami della loro cultura religiosa.

C’è una storia o una donna che più di altre le è rimasta impressa nel
cuore e nella mente?
Faccio fatica a scegliere, perché molte di loro mi hanno colpito. Ripenso spesso a Wadha, a cui dedico il capitolo In fuga verso la libertà , che è fuggita dal paese per sottrarsi alle violenze che subiva da parte del padre e ora ha trovato asilo politico in Canada, proprio come  ha fatto recentemente la giovane Rahaf Al Muhammed al Qunun di cui hanno parlato tutti i giornali, dopo che si era barricata nell’ aeroporto di Bangkok. A differenza della diciottenne Rahaf, però, Whada ha più di trentanni ,ha pianificato la fuga in due anni, senza clamore o pubblicità, con molta paura, molti rischi e molta sofferenza.

Quanto tempo ha impiegato a scrivere Nonostante il velo? C’è stato
qualcosa che la preoccupava nella stesura del libro?
Ho svolto le mie interviste durante i due anni di soggiorno a Riad e ho impiegato circa un anno a scrivere  il libro. Quello che mi preoccupava era di comunicare al meglio quanto avevo sentito e vissuto durante la mia esperienza, senza tradire il desiderio delle donne saudite di essere comprese e ascoltate. Ho cercato di non fare trapelare il mio punto di vista (anche se immagino si possa percepire tra le righe) o di dare giudizi, ma di fornire il contesto e le informazioni storiche affinché la lettrice/lettore possa giudicare da solo. Ho cercato di fare ciò che penso un giornalista o uno storico dovrebbe idealmente fare.

Ci sono altre culture che vorrebbe esplorare, capire e raccontare in un
altro libro?
Mi interessano soprattutto le culture diverse dalla nostra, perché rappresentano una sfida alla comprensione e ai luoghi comuni. Sono stimolata a scrivere soprattutto quando vivo in un paese per motivi di lavoro. Quando ho vissuto in Cina ho studiato la storia cinese e  ho scritto la biografia  di Matteo Ricci, un gesuita vissuto in Cina tra cinquecento e seicento, il primo mediatore culturale tra Cina ed Europa (Padre Matteo Ricci, nato a Macerata, la mia Regione – ndr). Forse oggi mi piacerebbe conoscere più a fondo il Giappone, un antica civiltà che conserva le tradizioni pur essendo totalmente immerso nella modernità.

Bello davvero. Da giornalista, vorrei saper scrivere e raccontare storie come lei.


 

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Le motivazioni del Premio Letterario Femminile Plurale a Michela Fontana per Nonostante il velo


Nonostante il Velo: Donne dell’Arabia Saudita
di Michela Fontana, Vanda-epublishing, giugno 2018

Nonostante il velo di Michela Fontana è un lungo, affascinante viaggio in una società e in una cultura, quella dell’Arabia Saudita, di cui sappiamo ben poco, nonostante il paese rivesta un ruolo fondamentale e delicatissimo nello scenario geopolitico contemporaneo. Tra i tanti divieti imposti alle donne nei paesi islamici c’è anche quello di guidare. Un’azione che molte di noi compiono quotidianamente senza pensare che sia un diritto, un’azione negata ad altre donne come noi per cui la repressione di genere è talmente alta da impedirne addirittura la mobilità. Il 6 novembre 1990 a Riad viene organizzata una manifestazione per il diritto alla guida per le donne. Aisha, una delle promotrici della protesta, viene allontanata dalla capitale saudita. Nel 2011 la ribellione si riaccende grazie a una nuova generazione di attiviste che sfruttano anche i mezzi di comunicazione globale di cui disponiamo oggi grazie all’evoluzione di internet. Michela Fontana, attraverso la voce di undici donne dell’Arabia Saudita racconta la loro lotta e le loro paure, la loro storia, il loro quotidiano e la straordinarietà di una disubbidienza che è appannaggio soprattutto delle donne più abbienti di Riad che possono contare sulla copertura della famiglia, donne ritenute eversive dal governo e spesso allontanate.

Motivazione
Nominare, rinominare le cose per farle esistere: questo dovrebbe essere uno dei compiti della letteratura. Sottrarre all’oblio volti, storie, i nomi che nessuno pronuncia, per riconsegnarli infine al presente, con la forza della narrativa e dell’inventiva. Oppure con l’inchiesta, con la scrittura giornalistica. Michela Fontana, attraverso la testimonianza diretta di alcune donne saudite – l’Arabia Saudita resta un paese sconosciuto, anche perché impenetrabile, un vero e proprio inghiottitoio per le donne che devono confrontarsi con la proibizione, la vessazione, la sottoposizione a un guardiano che non si distrae mai – ci racconta da una prospettiva che ha a che fare con la quotidianità (una quotidianità che talvolta diviene intima) come proprio le donne si siano fatte portatrici di una clamorosa istanza di rinnovamento, sfidando con coraggio il proprio tempo e uscendone sì segnate, ma non sconfitte. Come richiede una scrittura di testimonianza, la lingua che sceglie l’autrice per raccontare di queste donne è schietta e sincera. A questa chiarezza di fondo contribuisce un utile glossario di servizio che spiega i tanti termini arabi che costellano il racconto-reportage. Michela Fontana ha anche uno spiccato interesse per l’onomastica araba, come spiega fin dalle prime pagine, e si preoccupa di tradurre sistematicamente il significato dei nomi delle donne che costituiscono il coro di voci di Nonostante il velo. Aisha, Nura, Hessa e le altre donne saudite, con le loro testimonianze, ci restituiscono un quadro sfaccettato e autentico della condizione della donna in uno dei Paesi islamici più repressivo, invitandoci a riflettere anche sulla condizione della donna in Italia, in una prospettiva femminile e plurale. Un grande paradosso aleggia intorno a questo libro: le donne che con i loro racconti hanno dato vita a Nonostante il velo non possono leggerlo, perché in Arabia Saudita è haram, cioè proibito. Il taglio di questa opera è veramente femminile e plurale : una donna che guarda, interroga, racconta da vicino altre donne, diverse da lei e fra loro per classe sociale, temperamento, esperienze di vita. Il calore del racconto in prima persona e la vividezza del reportage si alternano alla chiarezza del resoconto storico; seguiamo le vicende politiche di un intero paese, ma entriamo anche nelle case e negli ambienti di lavoro di chi lo abita, e soprattutto vediamo e ascoltiamo le protagoniste: donne più o meno giovani, più o meno ribelli, più o meno privilegiate. Mescolando con mano sicura memoir e giornalismo, Michela Fontana ha saputo creare un ritratto collettivo delle donne saudite pieno di dettagli e sfaccettature, lontano dai cliché e dalle generalizzazioni: in un’epoca in cui sembra sempre più difficile trovare chi guarda l’Altro da Sé con reale curiosità, il suo sguardo attento e rispettoso – ma anche lucidamente critico – e la sua scrittura precisa e mai banale sono strumenti preziosi di indagine e comprensione del mondo. Un lavoro meticoloso, empatico a tratti, condotto entrando nelle case, sedendo alle tavole, raccogliendo gli umori di professioniste, studentesse, attiviste, islamiste, scrittrici, mogli, madri – che ci aiuta a far luce su una delle tante prove a cui le donne sono costrette nella loro storia universale, e che faremmo bene a recuperare al nostro immaginario, perché il medioevo dei diritti non è mai scongiurato una volta per tutte.

Motivazione Primo Classificato 2018 – Premio Letterario Allumiere

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A new wave from the Middle East


di Sofia Celeste (L’officiel, settembre 2018)


– La mostra “Contemporary Muslim Fashion” dal 22 settembre al De Young Museum di San Francisco esplora la vastità del repertorio moda del mondo islamico. A Riyahd, in Arabia Saudita, lo scorso aprile si è tenuta la prima fashion week locale e le spettatrici, per l’occasione, si sono tolte il velo. L’emancipazione sta passando per la via delle passerelle. Un’apertura reale verso l’autonomia femminile o solo una strategia economica in vista della fine dell’egemonia petrolifera nei Paesi arabi?

È la settimana della moda a Riyadh e tutta l’élite dell’Arabia Saudita è in prima fila. Durante un evento per sole donne, spettatrici e designer si sono tolte il velo per indossare abiti occidentali in occasione della prima fashion week organizzata al Ritz-Carlton. Di fronte a un pubblico internazionale, le designer saudite hanno presentato le loro collezioni di moda – accanto a marchi europei del calibro di Jean Paul Gaultier – come vere imprenditrici emancipate facendo a pezzi lo stereotipo occidentale che vede la donna musulmana oppressa. Le riforme sociali, come quella che ha concesso alle donne il diritto di guidare, continuano a galvanizzare una nazione da tempo paludata in un sistema sociale basato sulla sharia (la legge islamica). La moda si è rivelata un potente strumento per dimostrare che le donne possono avere tanto talento quanto gli uomini. In passerella, Arwa Al Banawi, del brand The Suitable Woman, e Mashael-Alrajhi, hanno optato per abiti alla moda “occidentali” – una decisione chiaramente incoraggiata dalle nuove riforme del principe ereditario Mohammad bin Salman, il 32enne reale conosciuto come MBS, il quale ha sancito che le donne possono scegliere di indossare abiti convenzionali invece del tradizionale abaya nero con il velo.
Allo show di aprile, le collezioni di Al Banawi erano caratterizzate da look androgini come blazer oversize, pantaloni larghi e felpe da surfista: «Stiamo assistendo a un vero e proprio movimento per l’emancipazione delle donne in tutto il mondo. Sono felice di sostenere le mie connazionali», ha affermato. La fashion week di Riyadh fa parte di un più ampio progetto di MBS il “Vision 2030” ideato per attirare nuove industrie al fine di prevenire un’inevitabile crisi petrolifera. La Riyadh fashion week fa anche parte dell’Arab fashion week, con sede a Dubai, il cui obiettivo è sviluppare una catena di vendita al dettaglio e manifatturiera nei centri produttivi della moda araba che prevede di non delocalizzare l’economia legata al settore mantenendo la produzione in paesi come l’Egitto, noto per il suo cotone pregiato, la Tunisia per la sua seta e il Marocco per le sue concerie. Questo accontenterebbe le crescenti esigenze dei consumatori di beni di lusso ad Abu Dhabi, Riyadh e Dubai. Secondo Thomson Reuters (multinazionale canadese del settore dei mass media e dell’informazione), si prevede che i consumatori musulmani spenderanno più di 368 miliardi di dollari in modest fashion entro il 2021. Più della metà della popolazione saudita ha meno di 25 anni e oltre la metà di tutti i suoi laureati è di sesso femminile. Creare posti di lavoro e pari opportunità è in cima alla lista delle priorità economiche ed è anche un modo per il governo di rafforzare le piccole e medie imprese che attualmente contribuiscono solo per il 20% all’economia nazionale.
«È chiaro che una cassiera non può permettersi di spendere tutto il suo stipendio per pagare un autista che la porti a lavoro, quindi è più logico lasciarla guidare», ha affermato Michela Fontana, autrice italiana del libro “Nonostante il velo” (Morellini editore in co-edizione con VandA. ePublishing), che per due anni e mezzo ha vissuto a Riyadh intervistando donne di ogni ceto sociale.
Nel centro della capitale saudita si erge il monumentale Kingdom Centre di 99 piani su una città che conta cinque milioni di abitanti. L’edificio ospita brand internazionali come Victoria’s Secret, Gucci e Roberto Cavalli. Al suo interno, offre una visione più intima della società saudita: le donne velate vengono scortate dai mariti, mentre le ragazze più disinibite indossano degli abaya semiaperti, con i capelli al vento. Molti negozi impediscono alle donne di entrare senza il proprio guardiano, sfoggiando cartelli che recitano “Solo famiglie”. «Le donne sono considerate eterne minorenni a cui non è permesso nemmeno viaggiare senza l’autorizzazione di un uomo», ha spiegato Fontana, dichiarando che l’emancipazione passa per l’abolizione della figura del guardiano maschile. Lubna Suliman Olayan, per esempio, amministratore delegato donna della Olayan Financing Company (inserita tra le 100 persone più influenti del 2005 dal “Time”) ha potuto puntare al successo senza la zavorra di un patriarca (il marito è americano). «Penso si debba fare attenzione prima di dare per scontato che si tratti di riforme autentiche», avverte Nadine Naber, professoressa di studi di genere e delle donne e di studi asiatici americani all’Università dell’Illinois a Chicago e autrice di “Arab America: Gender, Cultural Politics, and Activism”. «È importante ricordare che questa è una strategia comune in Medio Oriente, in cui leader non democratici offrono riforme selettive legate ai diritti delle donne così da apparire riformisti agli occhi dei media in Occidente», ha affermato Naber, sottolineando che il governo Usa ha ignorato le notizie di maggio sulla carcerazione degli attivisti Eman al-Nafjan, Loujain al-Hathloul, Aziz al-Yousef e Nouf Abdulaziz.
Dal 22 settembre al 6 gennaio al De Young Museum di San Francisco ospiterà la mostra “Contemporary Muslim Fashion”, esibendo lo stile della comunità musulmana. «La diversità della popolazione di fede islamica nella Bay Area e il contributo del nostro gruppo di sostegno hanno avuto un’influenza determinante sull’organizzazione della mostra e sul desiderio di produrre un’istantanea globale delle mode musulmane contemporanee», ha affermato la curatrice Jill D’Alessandro, aggiungendo che San Francisco ospita una delle più grandi comunità degli Stati Uniti. Gli stessi designer hanno abbracciato lo stile mediorientale per soddisfare i bisogni dei loro maggiori consumatori – da qui i burkini, i hijab e gli abaya nelle collezioni di Alberta Ferretti e Max Mara per esempio – a dimostrazione che le donne musulmane sono una forza da non sottovalutare.