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Salario domestico: il lavoro casalingo è un lavoro?

Portata all’attenzione da alcuni gruppi femministi negli anni ’70, la questione del valore economico del lavoro domestico, sempre sottovalutata e mai risolta, viene curiosamente risollevata negli ultimi mesi, negli Stati Uniti, da alcuni Democratici candidati alle presidenziali, che propongono un salario domestico per i genitori che rimangono a casa ad occuparsi dei figli.

Per saperne di più, date un’occhiata all’articolo “Stay-at-Home Parents Work Hard. Should They Be Paid?” di Claire Cain Miller, pubblicato lo scorso ottobre sul sito del New York Times.

Sulla spinosa questione del salario domestico, leggi in “Manifesti Femministi“:

Lo chiamano amore. Noi lo chiamiamo lavoro non pagato.
La chiamano frigidità. Noi la chiamiamo assenteismo.
Ogni volta che restiamo incinte contro la nostra volontà
è un incidente sul lavoro…
Omosessualità e eterosessualità sono entrambe condizioni di lavoro […]
ma l’omosessualità è il controllo degli operai

sulla produzione non la fine del lavoro.
Più sorrisi? Più soldi.
Niente sarà più efficace per distruggere le virtù di un sorriso.
Nevrosi, suicidi, desessualizzazione: malattie professionali della casalinga.

da “Salario contro il lavoro domestico” di Silvia Federici
in “Manifesti Femministi“, edito da VandA Edizioni

Si constata l’esistenza di due modi di produzione nella nostra società:
la maggior parte delle merci è prodotta in base al modo industriale;
i servizi domestici, l’allevamento dei figli e un certo numero di merci sono prodotte in base al modo familiare. Il primo modo di produzione dà luogo allo sfruttamento capitalista. Il secondo dà luogo allo sfruttamento familiare, o più esattamente patriarcale.

“Formalmente libera di lavorare fuori casa, la donna non lo è di fatto. Una parte della sua forza-lavoro resta appropriata, dato che lei deve “assumere i propri obblighi familiari”, cioè fornire gratuitamente il lavoro domestico e allevare i figli. Non solo il lavoro fuori casa non la dispensa dal lavoro domestico, ma esso non deve nuocere a quest’ultimo. La donna è dunque
soltanto libera di fornire un doppio lavoro in cambio di una certa indipendenza economica. La situazione della donna sposata che lavora mette bene in evidenza l’appropriazione statutaria della sua forza-lavoro. Infatti, la fornitura di lavoro domestico non è più giustificata dallo scambio economico a cui viene abusivamente assimilato il servaggio della donna
“a casa”: non si può più sostenere che il lavoro domestico venga effettuato in cambio del mantenimento, che il mantenimento sia l’equivalente del salario e che questo lavoro, quindi, sia pagato. Le donne che lavorano si
mantengono da sole e forniscono dunque il lavoro domestico in cambio di nulla. Inoltre, quando una coppia calcola quello che guadagna una donna che lavora “fuori”, deduce le spese di custodia dei figli, gli oneri aggiuntivi ecc. soltanto dal salario della donna invece di sottrarre queste spese dall’insieme dei redditi della coppia. Ciò dimostra che:
1) si ritiene che tali consumi dovrebbero essere gratuiti, al contrario di consumi come l’alloggio, i trasporti ecc. che non vengono a propria volta dedotti dai guadagni;
2) si ritiene anche che tali consumi dovrebbero essere prodotti esclusivamente dalla donna: una parte del suo salario è considerata come nulla, poiché serve a pagare ciò che lei avrebbe dovuto fare gratuitamente. Alla fine di questo calcolo, generalmente si scopre che la donna non guadagna “quasi niente”. In Francia, secondo il censimento del 1968, il 37,8% delle donne sposate lavora fuori casa (Rouxin 1970).”

da “Il Nemico Principale” di Christine Delphy
in “Manifesti Femministi“, edito da VandA Edizioni