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Sognando l’Europa. Grande statista cercasi, Pierangelo Dacrema

“L’idea di un’Europa economicamente e politicamente unita – o un poco più unita di quanto lo fosse stata fino ad allora – nacque dopo il secondo conflitto mondiale. E fu di uomini che, avendo assistito alle sofferenze dei loro Paesi, immaginarono la possibilità, o meglio la necessità, che un continente devastato dalla guerra, per secoli teatro ricorrente di discordie e lotte armate, si dimostrasse finalmente capace di costruire un lungo periodo di prosperità e di pace.”

Eppure proprio questa unione ha deluso le aspettative di molti. L’euro più che un mezzo e una possibilità è stato troppo spesso percepito come un ostacolo alla realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere. 

Con “Sognando l’Europa” l’economista Pierangelo Dacrema presenta il disegno di un’Europa unita politicamente ed economicamente. Un’Europa che sia più importante della sua moneta e che torni ad essere guidata dalla grande politica.



Leggine un estratto…  

“Quella di un’Europa unita sul piano economico e politico è, di per sé, un’idea forte ed edificante, ma potrebbe sembrare a molti un’utopia. Accade tuttavia che certi sogni si avverino.

Quanti obiettivi apparentemente irraggiungibili, nel corso della storia e in ogni campo, sono stati perseguiti con tenacia da individui coraggiosi e poi, con l’aiuto di qualche circostanza favorevole, sorprendentemente realizzati? Ho un vivo ricordo del momento in cui, nel corso di un’intervista radiofonica rilasciata nella tarda primavera del 1989, Giulio Andreotti – all’epoca ministro degli Esteri, e quindi persona presumibilmente “informata dei fatti” – dichiarò, chiamato a esprimersi sul punto, che della caduta del Muro di Berlino avrebbero forse, e non senza un po’ di fortuna, potuto parlare i suoi nipoti.

È noto invece che il Muro cessò di dividere la parte occidentale da quella orientale della capitale tedesca a partire dal 9 novembre dello stesso anno, e che Helmut Kohl non si lasciò sfuggire l’occasione per diventare artefice di un evento storico formidabile come la riunificazione delle due Germanie. Ciò premesso, sarebbe difficile sostenere, da parte di chiunque, che l’attuale Unione europea si stia rivelando capace di muovere passi sicuri e spediti verso i suoi stessi obiettivi originari e non abbia deluso le aspettative di buona parte dei cittadini europei: la Brexit ne è una prova tangibile, e purtroppo non la sola.

È evidente come l’Europa sia più importante della sua moneta – parlo dell’Euro, a tutt’oggi la sua creatura più compiuta –, mentre sembra talora valere il contrario. Ed è così che l’Euro viene percepito da alcuni come un ostacolo per la realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere e non come un primo, fondamentale, strumento per il perseguimento degli scopi essenziali dell’Unione.

L’Euro è la valuta più protetta del pianeta, e questa ossessiva difesa tecnica della moneta (per statuto, l’unico imperativo della Bce è il contenimento del tasso di crescita del livello generale dei prezzi entro il 2% su base annua), con le politiche d’austerità che ne conseguono, possono sortire l’effetto di mettere in cattiva luce non solo e non tanto la moneta unica quanto l’unione di Stati che ne ha deciso l’emissione e l’utilizzo in via esclusiva. Più in generale, l’Unione europea sembra incline a occuparsi di fini limitati, specifici, e poco propensa a fronteggiare emergenze gravi: sono emblematici il ritardo e la scompostezza con cui è stato trattato un problema epocale come quello dell’immigrazione.

Gli stessi pilastri dell’Europa di Maastricht – il rispetto della soglia del 3% del rapporto deficit/Pil e del 60% del rapporto debito pubblico/Pil – privilegiano una visione rigidamente economico-finanziaria di un contesto complesso, articolato ed eterogeneo, rispetto a un’altra più flessibilmente, e più opportunamente, politica.

Eppure è noto come l’economia, non solo nel suo aspetto macro, si trovi legata, spesso in modo indissolubile, alle vicende della politica. Ragione per cui può accadere che un provvedimento di politica non economica (per esempio, un decreto del ministro dell’Interno o della Pubblica istruzione) abbia ripercussioni sul sistema economico più evidenti, se non addirittura più immediate, di un provvedimento di politica economica in senso stretto (per esempio, una diminuzione o un aumento dei tassi d’interesse, o un aumento o una diminuzione della pressione fiscale).

La sensazione è che l’Europa unita sia oggi orfana della grande politica. E non è fuori luogo ricordare, di nuovo, che cos’è riuscito a fare uno statista tedesco con una decisione che, nel 1989, apparve al mondo imprudente e potenzialmente foriera di disastri economico-sociali. A proposito del da farsi, occorre innanzitutto rendersi conto di come il progetto di un’Europa sempre più unita – tanto entusiasmante quanto di ardua realizzazione – richieda il recupero e il rilancio degli ideali che ne sono stati il motore iniziale. Solo una politica d’alto profilo può essere fonte di scelte e comportamenti destinati a generare un benessere maggiore e più equamente distribuito fra tutti i cittadini europei.

La percezione di un’inadeguatezza dell’Ue di oggi dovrebbe accomunare fautori e detrattori dell’Europa – categorie entrambe insoddisfatte, in misura e per ragioni diverse – e unirli nello sforzo comune della ricerca di un percorso più virtuoso, per quanto impervio. Possono sperare, “populisti” e “sovranisti”, di fare man bassa di voti alle prossime elezioni europee mobilitandosi solo per ottenere una sorta di mandato specifico ad abbandonare il campo o a “disfare tutto”, vale a dire tutto quel poco o tanto che esiste delle istituzioni e delle regole europee? Qualunque unione è fondata da un lato sull’esistenza di regole condivise al proprio interno, dall’altro sulla costruzione di un rapporto il più saldo possibile con la realtà che la circonda, vale a dire un sistema di relazioni che la legittimi all’esterno e le dia più forza all’interno.

Sul piano di una politica economica europea, l’esistenza di tali presupposti dovrebbe promuovere le condizioni per:

1) il mantenimento della centralità dell’Euro – e un suo maggior gradimento – attraverso la restituzione di un minimo di flessibilità alle politiche monetarie nazionali, anche a costo di un lieve innalzamento del tasso d’inflazione (per esempio, occorrerebbe concedere ai Paesi più indebitati un margine di manovra per l’emissione di valuta nazionale, ciò che evidentemente richiederebbe una revisione dei Trattati europei);

2) il sostegno di una politica industriale che favorisca il Sud dell’Europa e, più in generale, tutti i Paesi del Mediterraneo, in modo da creare, tra l’altro, condizioni di vita a livello locale idonee a scoraggiare l’emigrazione (per esempio, attraverso forti incentivi alle grandi imprese europee a investire nell’Africa del Nord, in Grecia, in Turchia e nel Mezzogiorno d’Italia).

In sintesi, è fondato il sospetto che un’insufficiente sensibilità delle istituzioni europee per certe istanze dei Paesi economicamente più fragili possa alla lunga far prevalere le tendenze centrifughe su quelle centripete. E sarebbe un vero peccato, poiché le disgregazioni e le frammentazioni possono risolvere nel breve piccoli problemi lasciandone aperti altri, ben più gravi, che le unificazioni hanno per loro natura una migliore attitudine a fronteggiare.”

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