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Però sbugiardiamo la retorica del dono nell’utero in affitto


di Marina Terragni (Panorama, 29 giugno 2016)


– Anche Nichi Vendola celebra il mito della donna che «regala la maternità surrogata» alla coppia gay. Ma è solo ipocrisia. Perché in realtà i soldi girano. 

Non basta l’accusa di omofobia contro chi si oppone all’utero in affitto, accusa che non risparmia nemmeno le oltre lesbiche resistenti. A ostacolare il confronto tra pro e contro è anche l’insopportabile retorica del «dono», supportata da studi come quello del Center for family research dell’Università di Cambridge, per il quale (altro che soldi!) le «madri surrogate» si offrono soprattutto per la gioia di aiutare gli altri. Una colossale «vocazione al dono» femminile viene celebrata anche da Nichi Vendola, neo-padre via surrogacy intervistato da Francesco Merlo sulla Repubblica, che dalle tariffe sposta l’attenzione sulla generosità della Donatrice (maiuscolo), detta anche «zia… una bella ragazza di 26 anni». E della «Portatrice con il bel faccione allegro… la nostra Grande Madre».

Sul quanto si sorvola. Ma in California, «all inclusive», si spendono in media 130-150 mila dollari: se poi scegli una «mère porteuse premium», ovvio, ti costa di più. Il Talento femminile per il dono è un classico del marketing delle agenzie di surrogacy: «Le donne diventano surrogate per molti motivi, ma le nostre condividono lo stesso obiettivo: donare la vita» (agenzia Artparenting, Maryland). «Attraverso la surrogacy le madri insegnano ai propri figli il puro atto di gentilezza» (agenzia Extraordinary conceptions, California).

È una distrazione di massa dallo scambio figlio-denaro. Denaro che in ogni caso va immediatamente «ripulito», spostando l’attenzione sulla nobiltà dei fini. Perché è scontato che quei soldi guadagnati per il servizio riproduttivo, in forma di rimborso o di tariffa commerciale, le temporary mother li investiranno «per aiutare i figli a pagarsi gli studi» (Umberto Veronesi) o per aggiustare il tetto di casa. Salvo eccezioni pressoché inesistenti (un atto d’amore tra madre e figlia, tra sorelle tra amiche: è capitato anche in Italia, su autorizzazione dei tribunali) una « surrogacy» non è mai gratis, ma è assolutamente necessario che lo sembri. Come se si volesse eliminare il fantasma produttivo, altrimenti si rovinerebbe il prodotto.

Il compito affidato alla madre portatrice è quindi duplice: non solo la fatica della gestazione, ma anche l’impegno a testimoniare un mondo migliore, in cui la solidarietà umana può spingersi a livelli inimmaginabili. «Un incantesimo d’amore» lo chiama Nichi. Ebbene, questa infinita oblatività delle donne non una novità: il patriarcato ci ha sempre fatto un gran conto. Lo dice anche la fmminista americana Janice G. Richmond: «Nella tradizione patriarcale le donne non sono solo donatrici, ma dono esse stesse». Chi insiste sul «dono» si allinea a pieno titolo a questa tradizione. E allora verrebbe voglia di dire a queste donne: amiche, se proprio dovete, fatevi pagare molto di più. Qualche milione di dollari. E quei soldi spendeteli per voi.

Marina Terragni è giornalista e blogger femminista, autrice di Temporary Mother (Vanda publishing, 100 pagine, 10 euro, in ebook 5,99 euro).