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Ma utero in affitto non vuol dire libertà


di Paola Tavella (IoDonna, 23 luglio 2016)


– L’industria della surrogacy fattura tre miliardi e cresce del 200 per cento l’anno. Progresso? No, solo una nuova forma di sfruttamento. Marina Terragni lo denuncia in un libro di successo. Che fa discutere.

È significativo, secondo me, che la schiacciante maggioranza di giornaliste, studiose, attivisti dei diritti umani, femministe e lesbiche che si occupano da più di vent’anni anni di biopolitica e nuovi modi di nascere avversi lo sfruttamento commerciale della gravidanza e della produzione industriale di neonati destinati a coppie eterosessuali o omosessuali e maschi singoli di ogni orientamento (fenomeno in crescita). Uso le espressioni “sfruttamento” e “vendita” perché ritengo che espressioni neutre, edulcorate o “politicamente corrette” siano solo un astuto strumento del marketing dell’industria della surrogacy, che fattura ormai 3 miliardi e ha un tasso di crescita del 200 per cento l’anno.

Per orientarsi su questo difficilissimo tema va colmato innanzitutto un deficit di informazione, come ha fatto Marina Terragni mandando in libreria per Vanda Publishing un breve, fulminante testo, Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (si trova anche in ebook), di cui molti e molte – fra le altre Susanna Tamaro sul Corriere – hanno discusso in questo ultimo mese. Sull’utero in affitto, ha scritto per esempio la psicoanalista junghiana Costanza Jesurum, ognuna/o tende a reagire non in base alla brutale realtà ma al proprio vissuto nei confronti della propria madre o della propria maternità, perché l’argomento ha immensi contenuti archetipici, emotivi, simbolici. Il successo del libro di Marina Terragni è dovuto alla capacità dimettere ordine proprio in questo magma, intanto liberandosi dall’accusa che avversare la trasformazione delle donne in mezzi di produzione e dei figli in merce significhi schierarsi contro l’omogenitorialità maschile o il desiderio delle coppie sterili. Terragni è invece favorevolissima alla genitorialità gay ma difende un’ovvietà: il neonato non può fare ameno del corpo di sua madre, della sua origine, della sua storia umana. quando questo avviene per disgrazia cerchiamo di trovare rimedio, ma nella surrogacy il danno viene organizzato.

Così Terragni giudica un equivoco qualificare quella pro-surrogacy come una opinione di libertà, e quindi progressista.

La libertà, scrive, non va scambiata con una sorta di “dirittisimo”, come se desiderare un figlio equivalesse al diritto di comprarlo e scavalcare a suon di dollari i veri diritti, quelli scritti nella Dichiarazione dei Diritti Umani e dei fanciulli. Terragni racconta le condizioni atroci in cui le fabbriche di bambini costringono le fattrici in Nigeria, in India, in Nepal, in Ecuador, dove l’80 per cento di quelle che si prestano sono analfabete e non leggono il contratto. Ricchi occidentali pagano per trasferire in una donna di colore l’ovulo fecondato comprato da una donna dell’Est Europa o da una brillante studentessa americana che non riesce altrimenti a pagarsi gli studi, in modo che il figlio nasca bianco. anche in California o in Ucraina i contratti sono scritti per garantire i clienti, non certo la “lavoratrice” che accetta ogni sorta di prescrizione e restrizione, che può essere costretta a abortire, partorisce davanti ai clienti e non può toccare la figlia o il figlio, tanto che dopo la nascita molte vengono sedate di routine, per evitare incidenti. Alcune di queste donne dichiarano di volere aiutare le coppie sterili, oppure si sentono investite da una missione umanitaria – come se il denaro non c’entrasse. Così la mistica della maternità, l’oblatività, il sacrificio femminile vengono rimasticati e riproposti come strumento di propaganda per fare un sacco di soldi, e solo una minima parte va alle fattrici, il resto tocca a mediatori, agenzie, avvocati, medici. Allora, dice Terragni, chiedere l’abolizione universale dell’utero in affitto “non significa soltanto contrastare il nuovo feroce volto del patriarcato e il mercato che divora tutto, ma difendere un punto irrinunciabile di civiltà che ruota intorno al riconoscere e rispettare la differenza sessuale, il cuore della natura umana. Cancellare la maternità e la relazione fra madri e figli significa mettere indubbio tutta la nostra civiltà”.