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Chiara Aurora Giunta: «La mia Maria, simbolo delle siciliane che non si arrendono»


di Danila Giaquinta (SiciliaInRosa, 2 luglio 2014)


– Genere, commedia. Ambientazione, anni Sessanta. Location, Catania. Trama: una donna del popolo si ritrova senza marito e con cinque figli a carico. Non è un film ma un romanzo.

Genere, commedia. Ambientazione, anni Sessanta. Location, Catania. Trama: una donna del popolo si ritrova senza marito e con cinque figli a carico. Non è un film ma un romanzo. Maria Recupero della Pescheria è l’ebook della scrittrice catanese Chiara Aurora Giunta edito da VandA. epublishing e pronto per il carrello da qualche mese.

Dopo una lunga carriera cartacea fatta di racconti e saggi per ragazzi e una serie di romanzi rosa, che hanno in comune un’impostazione storica, l’autrice approda al digitale. «Nella crisi dell’editoria è una proiezione nel futuro. Mi piace sperimentare – racconta divertita – ho fiducia nell’avventura intrapresa con Vicki Satlow, la siracusana Angela Di Luciano e Silvia Brena, le tre signore che stanno dietro questa casa editrice che pubblica on line».

Tutto ha inizio negli anni del boom, quelli in cui le case cominciano a riempirsi di frigoriferi e lavatrici e le donne ad avere più tempo libero anche per riflettere. Anni in cui, mentre circolano le Topolino e si formano le prime file ai caselli, tanti nodi vengono al pettine. In primo piano ci sono una donna e Catania, sullo sfondo la società italiana e la potenza del sesso debole.

«Attraverso il suo personaggio e in chiave comica – spiega l’autrice – racconto i problemi delle famiglie prima delle leggi sull’aborto e sul divorzio. Lei è molto forte e molto siciliana: è pratica, passionale e, in un modo o in un altro, se la cava. Descrivo la città e il Paese, come si viveva. La tv non era per tutti, c’erano i primi 45 giri e il mangiadischi. Si cominciava a parlare di sesso. Non è detto che Maria sapesse cosa fosse pur avendo fatto cinque bambini. E nella contrapposizione con le figlie si coglie come la società pian piano stesse cambiando».

Il marito emigra, non dà più notizie né manda soldi e lei si trova a giocare quel doppio ruolo che le donne conoscono da anni: portano il pane a casa e si prendono cura della famiglia. Maria si mette a vendere pesce con lo zio che ha un bancone alla pescheria. Il tutto con un testo in italiano spruzzato di dialetto. «Nei dialoghi il verbo è alla fine e li ho scritti come se sentissi parlare – continua la Giunta –. Una provocazione, quella di inserirla in un mondo di uomini. Volevo ribaltare la visione del maschio che decide e lo stereotipo della siciliana sottomessa. Vivo a Milano da 40 anni e all’inizio spesso mi chiedevano: “ma è vero che vi vestite ancora col velo?”. Il motore delle famiglie erano le donne e nella protagonista ci sono tante di quelle forti che ho conosciuto, come mia nonna: se n’è andata a 105 anni, era già separata prima della Seconda Guerra Mondiale e la chiamavano ‘la leonessa’».

Quando ci si tuffa nel passato, viene da chiedersi se qualcosa è cambiato. In quale Catania vivrebbe oggi Maria? Farebbe la pescivendola? E le donne, come se la passano? «La società è cambiata con la riforma del diritto di famiglia – conclude la scrittrice -. Le siciliane hanno sviluppato quello che era dentro di loro raggiungendo gli obiettivi mancati da mamme e nonne. Credono di avere di più ma hanno perso altro. C’è chi, per lavoro o carriera, deve rinunciare alla maternità o la rimanda fino a che la natura ha fatto il suo corso. Insomma, qualcosa si rincorre sempre. Oggi Maria non aspetterebbe il marito, non farebbe tanti figli. Il nuovo compagno non resterebbe sullo sfondo e una delle figlie che ha un’inclinazione omosessuale, che neppure riesce a cogliere, porterebbe la compagna a casa. Insomma, la protagonista avrebbe altri problemi ma resterebbe quella passionalità tipica delle siciliane. Catania è diversa fisicamente, si è allargata e vive anche di notte.

Allora la vita era concentrata nel centro storico e di sera le strade erano poco illuminate e vuote.

Molti gli edifici in stato di abbandono, i palazzi sventrati dalle bombe. In quegli anni parte la speculazione edilizia e l’idea che fosse bello solo il nuovo. Non c’era come adesso la cultura della conservazione e del restauro».