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Presentazione “Racconti Italiani” su lepetitjournal.com

È uscito un articolo sull’incontro di presentazione di Racconti Italiani su lepetitjournal.com, web magazine dedicato alla comunità francese a Milano.

Puoi leggerlo QUI.

Insieme all’autore François Koltès interverrà Oliviero Ponte di Pino e Marina Senesi leggerà alcuni brani del libro.

Il biglietto di ingresso è di 5€ e sarà possibile comprare il libro Racconti Italiani a un prezzo speciale di 10€ invece che 15€.

Vi aspettiamo!

 

 

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“Il Personale è Politico” VandA e le sue autrici al Salone Internazionale del Libro di Torino

Lo sapevi?

Saremo al Salone Internazionale del Libro di Torino!

Domenica 17 Ottobre alle 15:00 saranno presenti due ospiti speciali.

Rossana Carturan, autrice di Marinella, e la nostra autrice Monica Lanfranco, autrice di Voi Siete in Gabbia, Noi Siamo il Mondo. L’evento sarà moderato da Angela Di Luciano di VandA Edizioni.

Oltre a questo evento, saremo presenti per tutta la durata del Salone.

Ci puoi trovare al PADIGLIONE OVAL – STAND W12-X11.

Vi aspettiamo numerosi!

Puoi comprare i biglietti per il Salone Internazionale del Libro qui!

 

 

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Presentazione “Racconti Italiani” su mentelocale.it

Mentelocale.it,  il web magazine indispensabile che segnala gli eventi da non perdere a Milano e dintorni, segnala l’incontro di presentazione di Racconti Italiani che si terrà lunedì 11 ottobre alle 18.30 al Café Rouge del Teatro Franco Parenti.

Puoi leggere l’articolo QUI.

Insieme all’autore François Koltès interverrà Oliviero Ponte di Pino e Marina Senesi leggerà alcuni brani del libro.

Il biglietto di ingresso è di 5€ e sarà possibile comprare il libro Racconti Italiani a un prezzo speciale di 10€ invece che 15€.

Vi aspettiamo!

 

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“A tu per tu con François Koltès” su TuttoMilano

Grazie Fiorella Fumagalli per aver segnalato l’incontro di presentazione di Racconti Italiani sull’ultimo numero di TuttoMilano, settimanale di appuntamenti, spettacoli ed eventi per il tempo libero.

Puoi leggere l’articolo QUI.

Ricordiamo che l’incontro si terrà lunedi 11 Ottobre alle ore 18.30, presso il Café Rouge del Teatro Franco Parenti di Milano. Insieme con François Koltès interverrà Oliviero Ponte di Pino e Marina Senesi leggerà alcuni brani del libro.

Il biglietto di ingresso è di 5€ e sarà possibile comprare il libro Racconti Italiani a un prezzo speciale di 10€ invece che 15€.

Vi aspettiamo!

 

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#branidaleggere “Aphra Behn, l’incomparabile Astrea” di Vita Sackville-West

Ecco qui un estratto dal libro Aphra Behn, l’incomparabile Astrea di Vita Sackville-West in uscita il 20 Ottobre.

 

Potete preordinare il libro qui, anche in versione e-book!

 

❝Aphra Behn, quella signora affabile «che indossa una vestaglia slacciata, con il collo e i seni scoperti… Che fuoco ha negli occhi! Che passione nei movimenti! Quanta sicurezza nella sua espressione!». Quella signora nasce a Wye, vicino a Canterbury, nell’estate del 1640 e da giovanissima scompare dalle coste dell’Inghilterra e dalle pagine di una biografia rispettabile. Dal momento in cui, neonata, fu portata in braccio oltre i campi di luppolo nella chiesa ai piedi della collina verde di Wye, intraprese una carriera ricca di controversie e contraddizioni. La sua famiglia, il luogo di nascita, il ceto sociale del padre, la grafia del nome, i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, la grafia del cognome del marito, la stessa esistenza di un marito, sono tutti stati oggetto di discussione. Il che rende la questione particolarmente delicata e stimolante per il biografo. Dovrà chiamarla Aphra, Ayfara, Aphara, Aphora, Afra, Apharra, Afara o, ancor più fantasticamente, Aphaw o addirittura Fyhare? Dovrà chiamarla Amis o Johnson? Dovrà scrivere Behn, Bhen o Behen? Dovrà tenerla a Wye o spedirla in Suriname? Se la spedisce in Suriname, deve spedircela una o due volte? Deve credere a Van der Albert e a Van Bruin? Lei riposa sotto una lastra di marmo nero nell’Abbazia di Westminster e non può rispondere a queste domande.

Ma diciamo subito che Aphra Behn non è Shakespeare, a proposito del quale il più piccolo indizio su un particolare della vita sarebbe considerato prezioso e degno di essere indagato. Il biografo che si fa strada nel groviglio di date e di fatti, che si avventa con gioia su qualche inaspettata conferma, che fa a pezzi, distrugge e infine scarta definitivamente qualche teoria plausibile, dipanando una storia con la pazienza con cui si dipana un filo imbrogliato e lo si riavvolge in un gomitolo ordinato – il biografo potrebbe farsi tentare da analisi così minuziose da risultare solo noiose per il lettore comune. È già abbastanza se riuscirà a convincere il lettore a prendere per buono il suo bagaglio di conoscenze specifiche e a permettergli di tracciare un’immagine più nitida, l’immagine della signora Behn nella sua vestaglia slacciata, una donna magari un po’ trasandata e spesso un po’ volgare, ma sempre generosa, calorosa e gentile, che lavora sodo scrivendo in fretta i suoi dialoghi in una squallida stanza londinese. Ogni tanto è interrotta dai giovani scribacchini di Grub Street che bussano alla porta, certi di essere accolti da battute scherzose, solidarietà e buonsenso e – se necessario – dal soccorso di un borsellino di solito non troppo pieno. Una volta il nome di Aphra Behn si poteva a stento pronunciare, o lo si pronunciava solo scusandosene: quel nome era sinonimo di tutto ciò che di osceno vi era nella vita e nella letteratura. «Era solo una sgualdrina», afferma uno scrittore con tono irritato e altezzoso, «che danzava nel lerciume». Eppure, anche se ambienta le sue scene in bordelli e camere da letto, se il suo linguaggio non è consigliabile ai delicati di stomaco e se nella vita privata ha seguito i dettami della propria inclinazione piuttosto che quelli della morale convenzionale, nella storia della letteratura inglese Aphra Behn rappresenta qualcosa di molto più importante di una semplice sgualdrina. Il fatto che abbia scritto è molto più importante della qualità di ciò che ha scritto. Aphra Behn è importante perché è stata la prima donna in Inghilterra a guadagnarsi da vivere con la penna.

È vero, l’impareggiabile Orinda aveva preceduto l’incomparabile Astrea. Ma Orinda non era una scrittrice professionista. Non doveva guadagnarsi da vivere. Non era né romanziera, né drammaturga: era solo una ricca dilettante che si occupava a tempo perso di poesia, un’apostola dell’amicizia che ospitava un salotto letterario. C’era stata la duchessa di Newcastle, castle era una gran donna, seppur eccentrica, la quale, anche se scrisse – e scrisse freneticamente – per la fama, non può essere considerata in alcun senso del termine una che si mise in competizione nel mondo concorrenziale delle gelosie letterarie. La signora Behn, invece, si gettò nella mischia. Stava a Grub Street insieme ai migliori scrittori, rivendicava gli stessi diritti degli uomini, fu un fenomeno mai visto prima e, quando fu notato, suscitò un’ostilità feroce. La rabbia dei suoi critici e dei suoi rivali fu eguagliata solo dalla sua rabbia per non essere giudicata in maniera imparziale. Era ben consapevole del proprio ruolo di pioniera e sicura di saper portare avanti il compito che aveva intrapreso: la sua lingua e la sua penna divennero taglienti di fronte all’ingiustizia degli attacchi sferrati contro di lei. «Un’opera penosa – dannazione! – perché è di una donna». Benché talvolta arrabbiata e spesso ferita, non si scoraggiò mai. Romanzi, traduzioni, poesie, opere teatrali sgorgarono dalla sua penna, insieme a ingiurie e rappresaglie contro i suoi detrattori. Dal momento in cui iniziò a scrivere fino al giorno della sua morte, non fu mai sconfitta. Con la sua ostinazione ha reso un servizio al suo sesso, e non fu un servizio da poco. Una schiera di donne seguì la strada da lei tracciata con tanta fatica: Elizabeth Rowe, Mary Pix, Eliza Haywood, Jane Barker, Penelope Aubin, Mary de la Rivière Manley, per nominarne solo alcune, furono le sue eredi dirette. Le sue opere forse non vengono lette, ma è in qualità di pioniera che, a sua eterna gloria, dovrebbe essere ricordata…❞

 

Vi è piaciuto questo estratto?

Correte a preordinare il libro!

versione cartacea 

versione e-book

 

 

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Presentazione di “Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo” di Monica Lanfranco alla Casa di Quartiere, Alessandria

Mercoledì 20 Ottobre alle ore 18.00, presso il La Casa di Quartiere di Alessandria, in via Verona 116, sarà presentato il libro Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo.

L’incontro sarà presentato da Peter Nicolisi, e l’autrice Monica Lanfranco dialogherà con Mara Scagni.

Vi aspettiamo numerosi!

 

A vent’anni dai fatti di Genova un libro importante dal punto di vista delle donne.
Le giovani generazioni domandano sul G8 di Genova del 2001, vogliono sapere, vogliono
capire. Hanno bisogno del racconto reale di chi c’era e di chi il G8 l’ha vissuto sulla propria
pelle. Questo libro è un racconto personale e politico non solo degli eventi, del movimento
e delle istanze, ma anche di elaborazioni politiche e dei progetti femministi purtroppo
occultati dai fatti di luglio del 2001. La morte, la violenza, il sangue, gli abusi, la ferita
inferta alla democrazia hanno seppellito a lungo, inevitabilmente, i contenuti dello sguardo
femminista di allora, che furono fortemente profetici riguardo ai pericoli dell’impatto della
globalizzazione neoliberista sulle nostre vite e sul pianeta. Questo sguardo, allora
premonitore, è ancora oggi limpido, attuale e più che mai necessario.

Monica Lanfranco è giornalista, scrittrice e formatrice, conduce corsi sulla comunicazione e il linguaggio non sessista, la storia del movimento delle donne, la risoluzione nonviolenta dei conflitti. Nel 2008 ha fondato Altradimora, vicino ad Acqui Terme, luogo di seminari e incontri con ottica femminista. Dal suo libro Uomini che odiano amano le donne. Virilità, sesso, violenza: la parola ai maschi (2012) nasce il primo laboratorio di teatro sociale italiano per uomini, Manutenzioni-Uomini a nudo. Tra le pubblicazioni più recenti, Crescere uomini (2019). Dal 1994 dirige il trimestrale femminista Marea www.monicalanfranco.it

 

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Presentazione “Racconti Italiani” di François Koltès al Café Rouge del Franco Parenti, Milano

Lunedi 11 Ottobre alle ore 18.30, presso il Café Rouge del Teatro Franco Parenti di Milano, sarà presentato il libro Racconti Italiani di François Koltès.

Insieme con François Koltès interverrà Oliviero Ponte di Pino e Marina Senesi leggerà alcuni brani del libro.

Il biglietto di ingresso è di 5€ e sarà possibile comprare il libro Racconti Italiani a un prezzo speciale di 10€ invece che 15€.

«Non c’è nulla di arrogante nel guardare in faccia le persone che ci vengono incontro. Anzi, questo è il minimo che si possa fare, l’inizio di ogni rapporto umano, l’origine del contatto sociale.»  François KoltèsRacconti Italiani

Vi aspettiamo numerosi!

 

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“Autostima” di Gloria Steinem, in uscita il 4 ottobre, sull’Espresso.it

Il 26 settembre, sull’Espresso.it, è uscito un’interessante intervista a Gloria Steinem, firmata da Francesca Sironi.  

Potete leggerla qui sotto:

 

 

 

Preordina ora una copia di Autostima. La rivoluzione parte da te di Gloria Steinem in uscita il 4 ottobre!

 

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#branidaleggere, Autostima di Gloria Steinem

Ecco un estratto dall’ultimo libro di Gloria Steinem Autostima in uscita il 4 Ottobre.

In questo brano l’autrice racconta di un aneddoto avvenuto al Plaza Hotel, che le ha provocato domande sulla propria autostima.

Per preordinare il libro clicca qui!

Era sul finire degli anni Sessanta, un’epoca che per me era
ancora pre-femminista. Non mettevo in discussione il fatto
che giornalisti meno esperti di me ottenessero le inchieste politiche
che mi interessavano tanto. Al contrario, ero contenta
di scrivere profili di celebrità in visita – qualcosa di diverso dai
servizi su argomenti relativi alla moda e alla famiglia che di
solito venivano assegnati alle reporter – e non faceva eccezione
un’intervista che avrebbe dovuto avere luogo davanti a una
tazza di tè nel giardino delle palme del Plaza Hotel.
Poiché l’attore che dovevo intervistare tardava parecchio,
restai ad aspettare fino a quando il vicedirettore dell’hotel, che
per tutto il tempo mi era rimasto alle calcagna con aria di disapprovazione,
si avvicinò. Alle «signore non accompagnate»,
annunciò ad alta voce, «era assolutamente vietato» l’ingresso
nella sala d’aspetto. Gli dissi che ero una giornalista e che stavo
aspettando un ospite che non poteva essere contattato in
altro modo – una spiegazione che parve penosa anche a me. Il
vicedirettore mi accompagnò con fermezza alla porta, sotto gli
sguardi incuriositi dei presenti.

Mi sentivo umiliata. Sembravo forse una prostituta? Il mio
impermeabile era troppo malconcio – o non lo era abbastanza?
Ero in ansia. Come avrei fatto a ritracciare l’attore e a fare
l’intervista? Decisi di aspettare fuori dalla porta girevole nella
speranza di intravederlo attraverso i vetri, ma dopo un’ora lui
non si era ancora fatto vivo.

Più tardi venni a sapere che si era presentato all’appuntamento
e, non avendomi vista, se ne era andato via. Il suo
agente chiamò il mio caporedattore lamentandosi perché avevo
«dato buca» al suo cliente. L’attore perse la sua pubblicità,
il giornale il suo articolo e io un assegno che mi serviva per
pagare l’affitto. Mi rimproveravo anche per non essere riuscita
a escogitare qualcosa per «avere il pezzo» e temevo di essere
retrocessa per sempre nel ghetto degli articoli «rosa» a cui cercavo
di sfuggire.

Il caso volle che, circa un mese più tardi, ricevessi l’incarico
di intervistare un’altra celebrità che stava sempre al Plaza. Per
evitare un fiasco simile al precedente, mi ero accordata per incontrare
l’intervistato direttamente nella sua suite, ma mentre
attraversavo l’atrio mi accorsi della mia nemesi appostata di
guardia. Non so come, mi ritrovai a indugiare come se avessi i
piedi inchiodati a terra – e ovviamente il vicedirettore mi si
avvicinò pronunciando lo stesso discorsetto ufficiale della volta
precedente. Ma questa volta restai io stessa sbalordita nel sentirmi
replicare in modo molto diverso. Gli dissi che mi trovavo
in un luogo pubblico, dove avevo tutto il diritto di stare, e
gli chiesi come mai non avesse allontanato i tanti «uomini non
accompagnati» nell’atrio, che avrebbero potuto essere altrettanti
prostituti. Sottolineai pure che, essendo ben nota la sollecitudine
con cui lo staff dell’hotel procurava ragazze ai clienti
prendendosi una percentuale sul loro compenso, forse era soltanto
preoccupato di perdere la sua provvigione.

Rimase sbigottito – e mi permise di restare. Chiamai la
persona che dovevo intervistare, proponendogli di prendere
un tè giù al bar. L’intervista si rivelò particolarmente interessante
e ricordo di averla scritta con più agio del solito e di
averla consegnata con uno strano senso di benessere.
Qual era la lezione da trarre da quei due piccoli incidenti?
Chiaramente, né il vicedirettore né io eravamo cambiati. Io
indossavo lo stesso impermeabile e lavoravo come freelance
per la stessa testata. Solo una cosa era cambiata: la mia autostima.
Era lievitata quasi contro la mia volontà, per contagio.
Nell’arco di tempo compreso tra quelle due interviste, una
donna medico aveva prenotato un tavolo per sé e per un gruppo
di amiche all’Oak Room del Plaza, un ristorante che a ora
di pranzo veniva riservato agli uomini con il pretesto che il vociare
delle donne avrebbe potuto disturbare le riunioni d’affari
maschili. Quando questa donna, come aveva supposto, venne
bloccata all’ingresso dell’Oak Room perché era il «dottore» del
genere sbagliato, il suo gruppo di commensali, formato da note
femministe, si trasformò in un batter d’occhio in un picchetto
militante davanti al locale e tenne una conferenza
stampa convocata in anticipo, in previsione di quanto sarebbe
accaduto.

Ora, anch’io ero stata invitata a unirmi a quella protesta –
e avevo rifiutato. A New York, come nella maggior parte delle
città, esistevano molti ristoranti e bar che vietavano l’ingresso
alle donne, o si rifiutavano di servire le «signore non accompagnate
» (cioè qualsiasi donna o gruppo di donne privo della
presenza magica di un uomo). Certamente la cosa mi indignava,
ma denunciarla all’Oak Room, un ristorante troppo costoso
per la maggior parte delle persone, uomini o donne, mi
sembrava un errore. L’unico rimedio poteva essere un’ordinanza
comunale che bandisse qualsiasi forma di discriminazione
nei locali pubblici, e per ottenerla sarebbe stata necessaria
una mobilitazione democratica. Inoltre, le femministe venivano
già rappresentate in maniera distorta dai media come
bianche, borghesi e frivole, una caricatura che già allora sapevo
essere ingiusta: le prime femministe di cui avevo sentito parlare
negli anni Sessanta erano donne di estrazione operaia che
avevano infranto la barriera del sesso alla catena di montaggio,
e le prime che avevo incontrato di persona erano donne nere
inserite nei programmi di assistenza sociale che paragonavano
quel sistema a un marito ciclopico che, in cambio di un sussi28
dio appena sufficiente per sopravvivere, pretendeva fedeltà sessuale
(la famosa regola del «nessun uomo in casa»). Temevo
che se gruppi come quelli non avessero ottenuto visibilità
pubblica – e l’avessero ottenuta invece le donne benestanti che
pranzavano al Plaza – l’immagine del nuovo movimento sarebbe
stata ancora più distorta.

Come si è poi dimostrato, avevo ragione sulla tattica e sul
tipo di immagine che i media proponevano del femminismo:
«bianca-di-classe-media» divenne una sorta di etichetta incorporata
nella macchina da scrivere di molti giornalisti (per
quanto i sondaggi mostrassero che le donne nere erano due
volte più inclini delle bianche a sostenere i cambiamenti proposti
dalle femministe).1 Mi sbagliavo completamente, invece,
sulla risposta delle donne – compresa la mia. Per esempio:
all’epoca di quella manifestazione al Plaza, avevo già fatto picchetti
per i diritti civili, contro il coinvolgimento degli Stati
Uniti in Vietnam, e in solidarietà ai lavoratori agricoli immigrati,
manifestazioni molto lontane dall’essere tatticamente
ineccepibili. Dunque, perché ora pretendevo la perfezione dalle
donne? Quando i ristoranti e i bar erano stati vietati ai neri
o agli ebrei mi sentivo a mio agio a protestare, indipendentemente
dal fatto che si trattasse di locali lussuosi o meno. Allora
perché non riuscivo a prendere altrettanto sul serio la metà
di genere umano a cui io stessa appartenevo (e che, dopo tutto,
includeva la metà di tutti i neri e la metà di tutti gli ebrei)?
La verità è che avevo interiorizzato la ridicola valutazione
sociale di tutto ciò che è femminile – inclusa me stessa. Questa
non era logica, ma bassa autostima. Una donna nera avrebbe
dovuto manifestare per il diritto di mangiare in qualsiasi tavola
calda del Sud, dove veniva discriminata su base razziale, e
lasciar perdere quando, a causa del sesso, si rifiutavano di servirla
in un lussuoso ristorante di New York? Ovviamente no.
Il principio – e, ciò che più importa, il risultato per una donna
reale – era lo stesso. Ma io ero stata educata all’idea che i giudizi
basati soltanto sul sesso fossero meno importanti di quelli
basati soltanto sulla razza, sulla classe o su qualsiasi altra cosa.
Di fatto, considerando tutti i gruppi al mondo a eccezione
delle donne bianche, davo più valore a chiunque che a me
stessa.

Ciò nonostante, tutti i pretesti che mi venivano in mente
non avevano impedito al mio inconscio di lasciarsi catturare
dallo spirito contagioso delle donne che avevano organizzato il
picchetto all’Oak Room. Quando incontrai nuovamente il vicedirettore
dell’hotel ero in grado di percepire il mondo come
se le donne contassero. Guardandolo attraverso i loro occhi,
avevo cominciato a vederlo con i miei.

Ci avrei messo ancora degli anni prima di rendermi conto
della portata del cambiamento del mio punto di vista. Molto
più tardi ne riconobbi l’importanza in Revolution, il saggio del
giornalista polacco Ryszard Kapuscinski, che descrive il momento
in cui un uomo ai margini di una folla restituisce uno
sguardo di sfida a un poliziotto – e il poliziotto avverte un improvviso
rifiuto del suo sguardo intimidatorio – come l’istante
impercettibile in cui nasce la ribellione. «Tutti i libri sulle rivoluzioni
iniziano con un capitolo che descrive la decadenza di
un’autorità vacillante o la miseria e le sofferenze del popolo»,
scrive Kapuscinski. «Dovrebbero iniziare invece con un capitolo
psicologico che mostri in che modo un uomo vessato e terrorizzato
improvvisamente superi il terrore e metta fine alla
propria paura». Questo straordinario processo – che talvolta
avviene in un istante, come uno shock – necessita di essere il30
lustrato. Un uomo si sbarazza della paura e si sente libero. Se
così non fosse, non ci sarebbe alcuna rivoluzione».

Anche nel mio caso, quel momento nell’atrio dell’hotel
Plaza segnò l’incipiente consapevolezza che in ciascuno di noi
esiste un sé più sano, che aspetta soltanto un incoraggiamento.
L’esperienza di una forza insospettata è talmente comune che
disponiamo di frasi ordinarie per descriverla: «ero stupita di
me stessa», «malgrado me stessa». Ne Il rosso e il nero Stendhal
ha chiamato questo sé interiore «un piccolo amico». Ne Il colore
viola di Alice Walker, Celie scrive lettere a un amico forte
chiamato Dio, ma si rivolge anche alla forza che alberga dentro
di lei. I bambini inventano amici immaginari, e gli atleti, i
musicisti e i pittori lottano affinché questo sé autentico e
spontaneo si sprigioni nel loro lavoro. Meditazione, preghiera,
creatività: sono tutti mezzi comunemente adoperati per liberare
la voce interiore. Quando il sé viene riconosciuto, valutato,
scoperto, stimato, la sensazione è quella di uno «scatto», come
se letteralmente ci collegassimo a una fonte di energia interiore
che è soltanto nostra, eppure ci connette a qualsiasi altra cosa.
Per dirla in altri termini: iniziai a comprendere che l’autostima
non è tutto; è soltanto qualcosa senza di cui non esiste
nient’altro. ❞

Per preordinare il libro clicca qui!

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“Autostima” di Gloria Steinem, in uscita il 4 ottobre – Il Corriere della Sera

Il 25 settembre, sul Corriere.it, è uscita un’interessante intervista a Gloria Steinem, firmata da Viviana Mazza.  

Potete leggerla qui sotto:

 

 

 

 

 

 

Preordina ora una copia di Autostima. La rivoluzione parte da te di Gloria Steinem in uscita il 4 ottobre!

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“Afro-ismo” – recensione su Africa

È uscita sul numero di settembre/ottobre della rivista “Africa” una bella recensione di “Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero” di Aph e Syl Ko.

La potete scaricare e leggere qui.

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Recensione di “Carne da macello” – Leggere Donna

Su Leggere Donna è uscita una bella recensione di “Carne da macello. La politica sessuale della carne” di Carol J. Adams.

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Intervista a Katia M. – Satisfiction

Su Satisfiction.eu è uscita una bella intervista a Katia M., autrice di “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre“, a cura di Silvia Castellani.

Ve ne riportiamo l’introduzione.

Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre (VandA edizioni)di Katia M. racconta una storia vera di violenze perpetrate da un padre sulla figlia per quattordici lunghi anni, ma soprattutto racconta del riscatto di una donna che è riuscita con incredibile coraggio a rompere il muro di silenzio che ha circondato la sua infanzia negata. Gli abusi sessuali sono iniziati quando Katia aveva quattro anni e proseguiti in un crescendo di perversione fino a quando, raggiunta l’adolescenza, è venuto a galla in seguito alla denuncia della stessa vittima, tutto lo squallore di una vicenda assurda accaduta in un piccolo paese ligure come assurde soltanto possono essere tutte le storie che riguardano la violenza sui minori. Moltissime delle quali rimangono purtroppo sommerse. Si tratta di storie scioccanti che troppo spesso non trovano voce. Questa di Katia dopo essere finita al centro di una vicenda giudiziaria complessa che ha portato alla condanna del padre-bruto, è una di quelle che fortunatamente grazie all’eroismo della persona offesa si è potuta conoscere e costituisce oggi un esempio di come se ne possa uscire, portando un messaggio di speranza alle vittime che per paura o vergogna non hanno trovato ancora la forza di raccontare.

Katia, che ha deciso di pubblicare il suo libro tacendo il proprio cognome per tutelare la figlia, non risparmia nessun particolare della vicenda che l’ha vista protagonista ma ce ne parla con una dignità rara e vitale che trasforma il male in bene con parole necessarie: Usare il male che mi è stato fatto per diventare una persona migliore anziché consumarmi nell’odio o nell’autodistruzione è stata la mia regola, la mia filosofia. Se dal male nasce altro male non si arriva da nessuna parte; ma se dal male nasce anche solo una briciola di bene questo sarà duro come l’acciaio, perché temprato dalle difficoltà e dalla sofferenza, e bisogna usarlo per generare altro bene.

Storie come quelle di Katia si verificano sempre e ovunque, e sarebbe bello pensare ci possa essere anche sempre qualcuno che si accorga che “c’è qualcosa che non va”, qualcuno in grado di vedere un po’ più in là e possa così denunciare, rompendo il circolo vizioso che vede le vittime isolate da tutto e tutti. Servirebbe forse una coscienza collettiva più sviluppata, una responsabilità ancora maggiore e solida e la voglia di urlare, non solo da parte della vittima. Ciò che fa più paura di queste storie, come si apprende dal libro edito da VandA edizioni, è il silenzio che le circonda, come una cortina di nebbia attraverso cui è difficilissimo vedere. Vicki Satlow, agente letterario ed editore, con la sua casa editrice ha avuto a sua volta il coraggio di dare voce a questo memoir perché è necessario che queste storie trovino posto nel mondo editoriale potendo essere lette da chi può trovare in esse un motivo in più di forza per reagire. Chi è vittima di violenza deve combattere molti mostri prima di arrivare ad ottenere giustizia sconfiggendo il proprio carnefice: la confusione, la vergogna e il senso di colpa che porta a mentire a se stessi, ma soprattutto la solitudine. Come se non bastasse deve fare i conti – se trova il coraggio di denunciare e venire allo scoperto – con la reazione di certa “gente” che per ignoranza non è in grado di capire che la vittima è soltanto tale e la vergogna deve appartenere esclusivamente agli aguzzini. 

Il paese si divise a metà, chi diceva che non dovevo parlare, che avevo svergognato la mia famiglia inutilmente, che visto che ormai aveva smesso potevo stare zitta; chi invece mi difendeva e diceva che avevo fatto bene a reagire e a denunciarlo. Chi vive in paesi piuttosto piccoli può immaginare quanto si parlò della vicenda. Io non volevo nemmeno uscire di casa, mi stavo chiudendo a riccio, nel mio dolore e col fastidio che chiunque incontrassi ormai sapeva di me.

Non si può mai tacere la violenza se si vuole ricominciare, come ha fatto Katia, a vivere per davvero e il coraggio di denunciare con tutto quello che di molto arduo può conseguire – quel coraggio che sempre troppe poche vittime riescono a trovare – è una lezione importante che tutti abbiamo il dovere di imparare.”

Per leggere l’intera intervista clicca qui.