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A proposito di Elena di Giuseppina Norcia

Voce alle Donne

recensione di Emma Fenu

a proposito elena

A proposito di Elena è un narrazione polifonica, che fonde saggio, piece teatrale e racconto, scritto da Giuseppina Norcia ed edito da Vanda nel 2020.

Di cosa tratta A proposito di Elena?

Fa paura Elena.
Elena dea. Elena bellezza perfetta.
Elena proiezione dell’immaginario maschile.  Elena specchio della violenza della guerra.
Elena doppia. Elena Luna, multiforme e mutaforme.
Elena Donna.

La sua storia racconta cosa gli uomini sono capaci di fare per il possesso. Possesso di una città, di un corpo. Possesso che è abuso, violenza.

Elena odiata dagli uomini sedotti, a fare i conti con i propri mostri, e dalle altre donne. Se l’è andata a cercare, Elena, non è vittima sacrificale come Ifigenia o emblema del coraggio come Antigone.

Elena è rea di essere bella e viva. Imperdonabile.

Non importa se fu stuprata a dodici anni e restituita, come un corpo di bambola, da Teseo.

Non importa se viene rapita e altri decidono una guerra, non lei.

Non importa se disprezza Paride ed è costretta a concedersi.

Non importa se ha un’opinione. Nemmeno le donne hanno orecchie per la storia di Elena.

Solo una donna la difende, la saggia Penelope, quella che sa attendere: sa che è vittima dell’inganno divino che conduce alla follia e sa che non può dire né fare nulla, figuriamoci  se scatenare una guerra. La guerra è la follia degli uomini.

Gli uomini devono essere belli: la frase kalòs (bello) e agathòs (buono) diventa stereotipo: le qualità morali si esplicitano in quelle esteriori.

Ma Elena è una seduttrice pericolosa: in lei si ritrovano Ecate, Persefone e, soprattutto Artemide. E Eva?

Perchè leggere A proposito di Elena?

A proposito di Elena è un libro dalla bellezza travolgente. Seduce con storie, voci, richiami interni al testo, impliciti ed espliciti, connessioni che ricuciscono il mito con la cronaca e raccontano delle donne, non di una, e del corpo di tutte.

Non ho sintetizzato i vari argomenti trattati in modo puntuale e avvincente nei capitoli e l’intersecarsi di voci e storie e urla. Spetta a voi. Necessario è ascoltare, accogliere, comprendere.

L’epilogo invita alla rinascita. Si muore quando le proprie parole sono cancellate e dimenticate, ma si vive nel ventre di ogni storia raccontata dopo millenni di assenza e silenzio imposto.
Sia Voce a Elena, dunque e finalmente.
Sia Voce alle Donne, dunque e finalmente.
Link d’acquisto

Sinossi

Personaggio controverso e fascinoso, emblema della bellezza pericolosa, Elena di Sparta è portatrice di una complessità che ci sfugge.

Crediamo di conoscerla, eppure, per certi versi, di Elena non si sa niente.

Si sa, invece, l’effetto che fa sugli altri, al punto – così si dice – di aver causato una guerra.

Chi ha paura di Elena, dunque, e perché? Qual è la verità su di lei?

Desiderata e temuta dagli uomini, disprezzata dalle donne, apparentemente Elena non riabilita il femminile, non si presta a essere un’eroina da imitare come Antigone o Ifigenia, donne del coraggio e del sacrificio.

Così sembrerebbe. Ma andando alle radici sembra disvelarsi la possibilità di una storia diversa e di un’altra bellezza.

Perché fra le pieghe della Storia esiste sempre un’altra storia, soprattutto se il soggetto è donna.

Titolo: A proposito di Elena
Autore: Giuseppina Norcia
Edizione: Vanda, 2020

Recensione a cura di Emma Feru. E’ possibile vedere per integrale l’intervista sul sito sottostante.

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“Lo scandalo della felicità”, storia della Principessa Valdina di Palermo

Articolo di Margherita Francalanza, originariamente apparso qui.

L’ultimo romanzo di Pina Mandolfo, scrittrice e sceneggiatrice, intellettuale da anni impegnata nella difesa e promozione dei diritti internazionali delle donne e nel riscatto culturale della Sicilia, narra la storia vera e straordinaria di una donna, Anna Valdina, principessa palermitana che, nel 1600 a Palermo, fu monacata a forza quasi bambina.

La protagonista trascorse cinquant’anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per lo scioglimento dei voti, fino a riuscirci. Con implacabile geometria narrativa, Pina Mandolfo racconta la volontà e le ragioni di Anna Valdina, un’autentica e coraggiosa combattente, vissuta in un’epoca in cui il potere patriarcale comprimeva ogni anelito di libertà femminile. La storia di Anna e della sua vita in convento si intreccia con i fatti più rilevanti e con i personaggi della Palermo spagnola, in un racconto affascinante e struggente, carico di tensione.

La Valdina è certamente una donna di cui difficilmente ci si dimentica, la sua sola voce risuona forte da un lontano passato , attraversa i secoli e giunge alla contemporaneità. Provoca nel lettore una naturale complicità partecipativa, di indignazione e insieme desiderio di battersi al suo fianco, camminare scandalosamente .passo dopo passo, verso il diritto alla felicità degno di ogni essere umano.

“Il mio racconto , scrive l’autrice, è carico di tutta la passione verso un personaggio femminile non comune di cui ho voluto narrare la grandezza, descrivendone l’esemplarità di donna assoggettata ma non soggetta.”

Il racconto trae spunto da alcuni documenti d’Archivio ritrovati casualmente da Pina Mandolfo, poche trame elaborate tra ricerca storica, eventi del tempo e molta invenzione narrativa. Ma forse il “ caso “ è la miglior guida nel far emergere dal silenzio storie di donne dimenticate o volutamente occultate dalla Storia ufficiale per ulteriormente mortificarne la grandezza.

Numerosi personaggi ruotano attorno alle continue e singolari azioni di Anna Valdina, irriducibile nella volontà di chiedere un processo per lo scioglimento dei voti monacali. La storia della protagonista e la sua strana vita in convento si intrecciano con i più importanti fatti e personaggi della Palermo spagnola secentesca, le cui tracce, da quel tempo particolare, sono giunte fino a noi in un emozionante “continuum narrativo “.

Tra tanti personaggi, ad esempio, emerge Eleonora di Mora, l’unica donna, taciuta dalla storia, che divenne viceré a Palermo per ventinove giorni e rivoluzionò la città, ma “ taciuta dalla storia ufficiale “ e tutta da esplorare.

“Lo scandalo della felicità, storia della principessa Valdina di Palermo” potrebbe rientrare nella categoria del romanzo storico, le tracce d’archivio, la ricerca degli accadimenti e della società del tempo sembrano ricondurci a tale definizione. Eppure il libro , nella sua originalità , ci appare libero da “recinti” temporali e di genere. L’autrice crea un ponte ben visibile tra passato e presente, trascina il lettore dentro la storia che , trascinato nel tempo e nello spazio di Anna Valdina , è costretto a farsene carico , a portarla con se’ , finalmente alla luce del sole, fuori dalle stanze buie conventuali ,a farla finalmente vivere libera e ri/conosciuta.

La prosa di Pina Mandolfo è agile e insieme ricercata l’ impianto narrativo ritmato e intenso, un romanzo degno della migliore tradizione narrativa italiana e insieme una scoperta dell’immensa ricchezza nascosta della nostra Isola ,metafora del viaggio esistenziale delle donne (e dell’umanità tutta) nell’incessante ricerca della “ felicità” come diritto e dovere , promotrici di “ scandalo” e di scomode vite , pronte ad essere distrutte , per divenire Seme generativo di libertà.

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Basta lacrime – Storia politica di una femminista

Articolo di Alessandra Macci originariamente apparso qui .

Basta lacrime – Storia politica di una femminista-1995-2020 Vanda Edizioni 2022 di Alessandra Bocchetti, figura autorevole del femminismo italiano e presidente per molti anni del Centro Culturale Virginia Woolf di cui è stata tra le fondatrici, è un libro di grande interesse che raccoglie interventi, lettere, articoli, saggi scritti dal 1995 al 2020, anni in cui il femminismo della differenza si afferma sempre più come filosofia, politica e pratica quotidiana. Basta lacrime è un invito, una “chiamata” che tiene insieme pratica politica e pensiero delle donne, a non lasciarsi considerare sempre oppresse, perseguitate, osteggiate e danneggiate dal sistema patriarcale. Basta lacrime dice Bocchetti è un invito a uscire dalla trappola del vittimismo e a far leva, a prendere coscienza della grande forza che hanno le donne. E’certamente spiazzante per la storia e per l’esperienza troppo a lungo inespressa anche dalle donne stesse. Ragiona su dualismi quali: violenza-forza; declinata anche come debolezza/forza; bisogni-desideri; potere-potenza; autorità-potere; ordine-disordine; civiltà degli uomini-civiltà delle donne. E racconta le parole del femminismo: il privato è politico; il partire da sé; il diritto alla felicità. Si sofferma sul perché è importante passare dalla civiltà dell’uno alla civiltà del due che rappresenterebbe un cambiamento epocale, il tanto auspicato cambio di civiltà. Pone criticamente il tema dell’utero in affitto affermando che si sta operando sul corpo delle donne uno sfruttamento peggiore di quello operato sulla classe operaia. Non dimentica la pandemia, la fragilità e il bisogno di attenzione, cura ed amore espressa dalle donne in quella tragica fase. Ai dualismi, alle parole del femminismo, alle critiche alla politica dei partiti e delle istituzioni l’autrice in e cerca di offrire un terreno di confronto e di lavoro politico. Lo fa percorrendo la storia del movimento delle donne, del femminismo della fine degli anni sessanta, a partire dalle lotte che hanno segnato il femminismo della differenza e quello di Stato. Ricorda la grande manifestazione del 13 febbraio 2011 quando il paese da spettacolo da basso impero e le prime pagine dei quotidiani sono piene delle performance sessuali del Presidente del Consiglio. Ma quel giorno le donne danno al Paese una grande lezione di civiltà. E la Bocchetti intervenendo alla manifestazione in Piazza del Popolo gremita, esordisce con un “Bentornate”. E conclude con: “Buona fortuna a tutte, perché anche la fortuna ci vuole!” Basta lacrime dunque.

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SAVE THE DATE: eventi di gennaio-febbraio 2023

13 gennaio
Collettivo Mama presenta ROSA SPIA
Biblioteca Auris (Vignola MO) ore 20:30
Con le autrici Anna Paragliola, musica e voce Ellen River

13 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto Gramsci Siciliano (Palermo) ore 17:00
Con l’autrice Mariella Pasinati e Maria Concetta Sala

14 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice José Calabrò, Giovanna Crivelli, Anna di Salvo

15 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Comunale (Giarre CT) ore 17:30
Con l’autrice Teresa Sciacca, Gabriella Gullotta, Alessandra Nucifora, Tania Spitaleri

19 gennaio 
Antonella Ortelli presenta SENZA AZIONE
Casa delle donne (Milano) ore 18:00
Azione teatrale di Irene Quartana
Con l’autrice Giulia Kimberly Colombo, Chiara Martucci, Giuliana Peyronel e Annamaria Teruzzi

23 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Spazio Sette Libreria (Roma) ore 18:30
Con l’autrice Nadia Fusini, Daniela Preziosi e Linda Laura Sabbadini

26 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto studi filosofici (Napoli) ore 16:30
Con l’autrice Giovanna Borrello, Alessandra Macci e Stefania Tarantino

27 gennaio

Marta Correggia presenta IL MIO NOME È AOISE
Galleria d’Arte di Palazzo Candia (Aversa) ore 18:00
con l’autrice Dott. Nicola Graziano, Dott.ssa Caterina di Martino e Avv. Giovanni Puca
Riflessioni musicali del Mastero Edoardo Amirante, Reading a cura di Camilla Aiello

1 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Verso Libri (Milano) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia

2 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice Giovanna Giordano 

8 febbraio 
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Manfredonia (FG)

9 febbraio 
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Magna Capitanata ore 17:00 (Viale Michelangelo 1 Foggia)
Con l’autrice Gabriella Berardi, Adele Longo, Mariagrazia Napolitano, Katia Ricci

10 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Palazzo dell’Acquedotto Pugliese Via Cognetti 38 Bari
Con l’autrice Chiara Divella e Giusi Giannelli

10 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria Ubik Ferrara ore 17:30
con l’autrice Moni Ovadia

21 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria degli Asinelli (Varese) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia

24 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Belpasso, presso Biblioteca comunare Roberto Sava. Converseranno con l’autrice Margherita Francalanza e Luigi Calabrese. Agata Longo leggerà alcuni brani del romanzo. Introdurranno l’incontro gli assessori Fiorella Valadà alla Pubblica Istruzione e Tony di Mauro alla cultura- sarà presente il Sindaco Daniele Motta.

13 gennaio
Collettivo Mama presenta ROSA SPIA
Biblioteca Auris (Vignola MO) ore 20:30
Con le autrici Anna Paragliola, musica e voce Ellen River

13 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto Gramsci Siciliano (Palermo) ore 17:00
Con l’autrice Mariella Pasinati e Maria Concetta Sala

14 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice José Calabrò, Giovanna Crivelli, Anna di Salvo

15 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Comunale (Giarre CT) ore 17:30
Con l’autrice Teresa Sciacca, Gabriella Gullotta, Alessandra Nucifora, Tania Spitaleri

19 gennaio
Antonella Ortelli presenta SENZA AZIONE
Casa delle donne (Milano) ore 18:00
Azione teatrale di Irene Quartana
Con l’autrice Giulia Kimberly Colombo, Chiara Martucci, Giuliana Peyronel e Annamaria Teruzzi

23 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Spazio Sette Libreria (Roma) ore 18:30
Con l’autrice Nadia Fusini, Daniela Preziosi e Linda Laura Sabbadini

26 gennaio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Istituto studi filosofici (Napoli) ore 16:30
Con l’autrice Giovanna Borrello, Alessandra Macci e Stefania Tarantino

27 gennaio

Marta Correggia presenta IL MIO NOME È AOISE
Galleria d’Arte di Palazzo Candia (Aversa) ore 18:00
con l’autrice Dott. Nicola Graziano, Dott.ssa Caterina di Martino e Avv. Giovanni Puca
Riflessioni musicali del Mastero Edoardo Amirante, Reading a cura di Camilla Aiello

1 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Verso Libri (Milano) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia

2 febbraio
Pina Mandolfo presenta LO SCANDALO DELLA FELICITÀ
Cavallotto Librerie (Catania) ore 17:30
Con l’autrice Giovanna Giordano

8 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Manfredonia (FG)

9 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Biblioteca Magna Capitanata ore 17:00 (Viale Michelangelo 1 Foggia)
Con l’autrice Gabriella Berardi, Adele Longo, Mariagrazia Napolitano, Katia Ricci

10 febbraio
Alessandra Bocchetti presenta BASTA LACRIME
Palazzo dell’Acquedotto Pugliese Via Cognetti 38 Bari
Con l’autrice Chiara Divella e Giusi Giannelli

10 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria Ubik Ferrara ore 17:30
con l’autrice Moni Ovadia

21 febbraio
Danielle Sassoon presenta A BEIRUT NON CI SONO PIÙ CANI
Libreria degli Asinelli (Varese) ore 19:00
con l’autrice Moni Ovadia

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Un buon auspicio! Basta lacrime!

Articolo di Maria Concetta Sala originariamente apparso qui.

Nel contesto sconquassato e sgangherato in cui ci troviamo a vivere la lettura dell’ultimo libro di Alessandra Bocchetti Basta lacrime (VandA.edizioni, 2022) offre a donne e uomini, a ragazze e ragazzi – interessati a leggere il risvolto meno noto delle origini dello scardinamento in atto e delle aperture su idee e visioni in un orizzonte di autentica libertà grazie alla potenza di un’idea sovvertitrice dell’ordine millenario del patriarcato – la possibilità di ripercorrere, se non di scoprire, la storia politica dell’Italia nel venticinquennio 1995-2020 attraverso lo sguardo di una donna impegnata insieme ad altre donne nell’edificazione di una civiltà che metta al primo posto un nuovo senso dell’umano rivolto alla cura del vivente, all’attenzione materna, alla tensione verso la giustizia.

Si tratta di una storia politica che continua ad alimentare « principi ordinatori della società » totalmente diversi da quelli dominanti –  quali il potere, il denaro, la violenza –  e che contribuisce a diffondere « una cultura meno eroica, meno violenta, più radicata nel mondo » (p. 287), perché ancorata alla conoscenza e all’accettazione della fragilità umana e della condizione di interdipendenza alla quale tutti, donne e uomini, siamo sottoposti. Si tratta di una straordinaria reinvenzione dello stare al mondo e nel mondo a partire dal « lavoro oscuro » delle donne, « insomma, l’invisibile della storia », che è « oggi, un tesoro da spendere accumulato nel corso di secoli, che è il loro sapere materiale generato dall’aver visto l’umanità sempre da molto vicino, nel suo splendore e nella sua miseria, nei profumi e nelle puzze » (p. 78).

Alla femminista della differenza Alessandra Bocchetti, figura di spicco del  Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fondato nel 1979 insieme ad altre amiche, alla donna da sempre in dialogo con le istituzioni ma distante dal femminismo istituzionale o di Stato dobbiamo questa raccolta di scritti politici che pur precisamente datati in quel ventennio ruotano intorno a questioni ancor oggi decisive per il futuro dell’umanità tutta e sollecitano a un ulteriore dibattito – ne elenco alcune: violenza e identità, corpo e maternità, violenza e giustizia, diritti e desideri, libertà e liberazione, femminismo e femminismi, soggettività e governo delle donne… Questioni complesse che i documenti, le lettere, gli articoli di Bocchetti hanno il pregio di porgere con grande pacatezza e di formulare in un registro piano, scorrevole e chiaro.

Mi soffermo su alcuni aspetti in una certa misura sorprendenti e che più hanno destato la mia curiosità e suscitato interesse, primo fra tutti il riaffiorare in diversi scritti di un vocabolo quale « dignità umana », che vorrei reinterrogare tenendo presente la possibilità di stabilire dei nessi con la ricerca della felicità da parte di una donna.

Dignità è una parolina che ha una lunga storia: riguarda il valore unico e irripetibile che ogni individuo maschio o femmina possiede di per sé in quanto essere umano esistente su questa terra, nella sua qualità di essere umano, nel suo essere partecipe alla comune umanità. Simone Weil, molto amata da Alessandra Bocchetti, e il cui pensiero ricorre spesso in questa raccolta,  è la prima a fare dell’affermazione della dignità umana un obbligo incondizionato, l’obbligo primario, agganciandola ai bisogni umani, al nutrimento del corpo e dell’anima di ogni essere umano:

L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno.

Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo.

Quest’obbligo non si fonda su alcuna convenzione. Perché tutte le convenzioni sono modificabili secondo la volontà dei contraenti, mentre in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare (1) .

Si tratta, continua Simone Weil, di un obbligo fondamentale, eterno, incondizionato, che « non ha un fondamento, bensì una verifica nell’accordo della coscienza universale » (2) e che si trova espresso nei più antichi testi a partire dall’antico Egitto.

Per Alessandra Bocchetti dignità è una grande parola: « A pensarci bene, da sola basterebbe a fare un buon programma di governo. Se si pensasse alla dignità che a ciascun essere umano si deve in questa terra, che meravigliosi programmi si farebbero per il lavoro, per l’istruzione, per la salute! Sì, dignità è una parola che ci aiuta a fare bene » (p. 224). Gli esseri umani, donne e uomini, sostiene giustamente Bocchetti, sono uguali unicamente nella dignità, che « non è un bene da conquistare ma che ciascuno ha, malgrado se stesso, per il solo fatto di essere nato, per il solo fatto di condividere la condizione umana. Mi piacerebbe leggere nelle aule dei tribunali la scritta in bella vista: “La dignità è in ciascuno di noi”, sarebbe forse una frase profondamente più vera de “La giustizia è uguale per tutti”» (p. 245).

Il riconoscimento della dignità umana, lo sappiamo,  è un pilastro della civiltà giuridica e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e sappiamo anche quali e quante lotte le donne hanno dovuto sostenere perché questo principio si traducesse in realtà di fatto, ma, sottolinea con vigore Bocchetti, tutto quello che le donne hanno conquistato sulla carta, nei diritti, « può restare lettera morta se non viene animato da un soffio […] che dà energia» e questo soffio « è appunto un’idea nuova e forte, capace di cambiare le regole del gioco. […] È l’idea di diritto-aspettativa di felicità. Vedete, ho usato una doppia parola, “diritto-aspettativa”, in realtà né l’una né l’altra vanno bene, la parola diritto è troppo arrogante, la parola aspettativa è troppo debole. Ce ne vorrebbe una terza…» (p. 81).

Saggiamente viene sottolineato in un altro scritto che si tratta di un’idea nuova, di uno straordinario e rivoluzionario risultato, perché ha innescato un mutamento nell’ordine del discorso e nell’ordine dei fatti, ma qua e là affiora l’impazienza del “tutto e subito” che è a mio parere un errore, perché la rivoluzione delle donne è una rivoluzione simbolica, nella quale rientrano azione e contemplazione, e necessita di tempi lunghissimi E del resto lo ammette la stessa Bocchetti nel suo intervento nel corso di  un convegno sugli anni Settanta svoltosi a Cinisi nel 2018: « La felicità di una donna ha dato sempre un certo scandalo nell’ordine dei padri, risultava sempre un po’ fuori posto, il dolore era il sentimento che più si addiceva alla donna, la sua icona. Adesso invece questa felicità possibile è nella testa di tutte noi » (p. 239); e questo «è stato un grandioso passo avanti verso la libertà » (p. 247), lo ribadisce in un discorso tenuto durante il convegno “Stereotipi e pregiudizi sulla violenza di genere” organizzato dall’ Area Democratica per la Giustizia in Senato nel 2019.

Un altro aspetto importante di questo libro è il rilievo dato al lavoro delle donne, quello in casa, quello fuori di casa, fino alla presa di posizione giustamente intransigente nei confronti di quel terribile contratto che regola la  maternità per altri. Bocchetti è consapevole della visione statica della libertà delle donne che la politica tradizionale ha fatto propria e denuncia le armi a doppio taglio quali, ad esempio i congedi parentali e il part time, che mantengono le donne prigioniere e protette in gabbia; e si pronuncia contro le politiche di genere che hanno rafforzato e non eroso la miseria e la debolezza femminili in una sincera autocritica che è qualcosa di raro e di esemplare nella storia del movimento delle donne: « Abbiamo dato credito solo alla miseria delle donne, alla loro debolezza e abbiamo cercato di mettere a punto politiche di tutela, di riparo, di consolazione, non rendendoci conto che, così facendo, contribuiamo alla nostra imperfetta cittadinanza. […] La nostra cittadinanza diventa piena solo quando la nostra attenzione e tensione modificatrice va alla società intesa nella sua complessità », perché le donne sono « parte costituente della società stessa» (pp. 152-53). La sua riflessione sulla formula “forza-lavoro” è fondamentale ancora oggi : «Un padrone di fabbrica non compera l’operaio, compera la sua “forza-lavoro”. L’operaio non vende il suo corpo, vende la sua “forza-lavoro”. Simone Weil e altri ci hanno spiegato questo puro imbroglio. Weil, che ha voluto sperimentare la catena di montaggio alla Renault, ci racconta che è l’intera vita che se ne va, se ne va il poter pensare, il poter immaginare, la voglia di parlare, la salute, l’eros…» (pp. 217-18).

Alessandra Bocchetti fa bene a sottolineare l’importanza che potrebbe avere oggi una riflessione delle donne sul lavoro: « Nessuno ha mai difeso veramente il lavoro delle donne, né i partiti, né i sindacati. Il lavoro delle donne è stato sempre considerato aggiuntivo. […] È importante che il femminismo si assuma questo tema in questo momento, è un tema allo stesso tempo materiale e profondamente simbolico » (articolo apparso il 20 luglio 2020 sul supplemento La 27esima ora del «Corriere della Sera»). Sono d’accordo, bisogna riprendere le fila del discorso a partire dal «Sottosopra» del 2009, Immagina che il lavoro, un manifesto ben sintetizzato nella formula Primum vivere, che significa mettere al centro la vita ma non subordinando l’esperienza materiale del vivere alla riflessione teorica sul vivere o viceversa, bensì attribuendo valore a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, a ciò che è vitale e non mortifero (3).

________________________

1) Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di Franco Fortini, SE, Milano, 1990, p. 14.

2) Ibid., p. 15.

3) A questo proposito si  vedano ulteriori considerazioni nell’articolo redatto per «pressenza. International Press Agency, redazione di Palermo:  https://www.pressenza.com/it/2020/11/tutto-il-lavoro-indispensabile-alla-vita/

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Una donna in tribunale per fuggire dal convento

Articolo di Antonella Scandone (Repubblica.it) originariamente apparso qui.

Io non ci morirò in questo luogo“.Fu questo il ripetuto grido di dolore che per oltre quaranta lunghi anni accompagnò la vita di una nobile palermitana del Seicento, la sua discesa in un inferno rappresentato da una vita che non voleva e contro la quale lottò, a dispetto degli uomini e delle loro ottuse convinzioni. Questa è la storia di una donna, nata principessa Anna Valdina, vissuta come suor Maddalena e morta come principessa Anna Valdina. Finalmente donna libera dopo una vita da suora. La sua vicenda, sconosciuta ai più, è venuta fuori da tre polverosi faldoni che raccolgono le carte di un processo lungo tre anni. Processo che le consentì il ritorno alla vita secolare, dopo che, entrata in convento a sette anni per ricevere un’ educazione consona ad una donna del suo ceto, fu costretta a prendere i voti a soli dodici anni. Cinquanta anni da sepolta viva nel Monastero delle Stimmate, a Porta Maqueda, successivamente distrutto per far spazio alla costruzione del Teatro Massimo. Ne uscirà, la suora-principessa, grazie ad un’ incredibile forza d’ animo che non l’ abbandonò mai, a 57 anni. Morì, dopo essere tornata in possesso dei suoi averi e del suo titolo, cinque anni dopo. A fare rivivere la dolorosa vicenda di Anna dei principi Valdina è stata giovedì scorso al Kalhesa la professoressa Pina Mandolfo, tra le fondatrici della “Società italiana delle letterate” che si occupa della scoperta e della diffusione del sapere e della cultura delle donne, delle loro vite spesso nascoste. La Mandolfo ha tenuto una conferenza sulla Valdina, nell’ ambito del ciclo di incontri organizzato dal Fai. «Mi sono imbattuta nella storia di Anna Valdina – racconta Pina Mandolfo, autrice del libro “Desiderio” – mentre effettuavo una ricerca all’ Archivio di Stato sui ruoli femminili dal dodicesimo al diciannovesimo secolo. Erano gli atti del suo processo per lo scioglimento dei voti, e mi sono sembrati una scoperta interessante per lo spaccato che offrivano sulla realtà politica e sociale della Palermo del Seicento. Non vorrei sembrare estremista, ma mi sembra che nulla, o quasi, sia cambiato da allora. Questa è ancora una terra piena di intrighi, privilegi, dove qualsiasi iniziativa culturale è boicottata al fine di rendere tutto immutabile. Dove vige solo una cultura del privilegio, dell’ apparire e del non essere». Una cultura, insomma, intrisa ancora di quella mentalità che portò la famiglia a rinchiudere Anna e le sue tre sorelle in un convento per preservare i beni della famiglia ad un unico erede. La sua storia si differisce, però, da quella di tante altre sfortunate che prima e dopo di lei subirono lo stesso destino, perché Anna non si rassegnò mai, gridò per tutta la vita, contro chi le impediva una vita normale. «Fu solo dopo la morte del fratello – prosegue la Mandolfo – che dopo aver causato tanto dolore a lei ed alle sorelle, morì senza lasciare eredi, che Anna riuscì a farsi aiutare da un potente zio, protonotaro del Regno, al quale promise di lasciare in eredità tutti i suoi beni, se solo fosse riuscita a tornarne in possesso, sciogliendosi dai voti. Quei beni che, il fratello, morendo, aveva lasciato ad un prelato con il quale, per tutta la vita, aveva intessuto una relazione dai contorni non chiari, e che fu uno dei più strenui oppositori alla libertà di Anna». Dopo la morte del padre e del fratello, figure fortemente temute, molti accettarono di testimoniare e di raccontare come i suoi voti non avessero nulla a che vedere con la vocazione ma fossero solamente il frutto di una barbara usanza. Testimonianze che, alla fine, le consentirono di vincere il processo. «Alla morte di Anna, ultima erede della sua famiglia – racconta ancora la Mandolfo – i beni passarono, così come da lei promesso, alla famiglia dello zio. Il palazzo Papè Valdina in via del Protonotaro, di fronte alla biblioteca, appartiene ancora oggi alla famiglia ma versa in uno stato di totale degrado e mi auguro che si possa intervenire per restituirlo agli antichi splendori, così come è avvenuto per un’ altra proprietà della famiglia, il castello di Rocca Valdina, che è stato restaurato ed aperto al pubblico. Trovo particolarmente impressionante in questa vicenda, che tra le numerose carte esistenti, tra tutte le testimonianze, non compaiono mai donne. Neppure la madre della stessa Anna. Nessuna voce femminile che si alzi a difesa della sua libertà, a riprova che il presunto matriarcato di cui tanto si parla, funge solo da portavoce di una cultura maschile». Dalla ricerca della professoressa sono venute fuori anche altre storie simili, altri destini che si sono incrociati con quelli di Anna. Come quello della siciliana Francesca Lucchesi Palli, contemporanea della prima, o come quella di due sorelle ragusane, della famiglia Grimaldi, che nell’ Ottocento riuscirono ad uscire dal convento, a sposarsi e poi a donare tutti i loro averi per la costruzione di scuole femminili. Con la convinzione che solo la conoscenza potesse liberare le donne da un destino senza speranza. Ed esistono anche delle testimonianze autobiografiche, come quella di Arcangela Tarabotti, anche lei vissuta nel Seicento e del suo manoscritto, conservato per decenni in un archivio privato e recentemente ritrovato e pubblicato con l’ esplicito titolo di “Inferno monacale”, o come “Misteri del Chiostro napoletano”, nel quale Enrichetta Caracciolo, napoletana vissuta nell’ Ottocento, narra la sua vicenda di reclusione e di libertà riconquistata con una resistenza ed una lotta ostinata che più volte la portò a dichiarare: “Fossi uomo!”. Sulla figura di Anna Valdina, Pina Mandolfo prossimamente pubblicherà un libro. Una storia che, partendo dai documenti esistenti, si trasformerà in romanzo, per restituire ad Anna i desideri e i sogni che le furono sottratti.
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Racconti d’esilio: storie femminili dal mondo arabo-ebraico

Articolo di Sofia Tranchina, originariamente apparso qui.

Personaggi solitari, brandelli di ricordi, intuizioni camusiane e, soprattutto, storie di ebrei. Questo il filo conduttore dei cinquantatré racconti brevi raccolti sotto il titolo A Beirut non ci sono più cani, prima pubblicazione di Danielle Sassoon presso VandA Edizioni.

Nata a Milano nel 1965 da famiglia sefardita, Danielle ha conseguito una formazione umanistica, diplomandosi presso il Liceo Classico Parini di Milano, per poi essere ammessa al corso attori della Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, da cui viene espulsa per cattiva condotta. Seguono gli anni dedicati al disegno e alla pittura, una passione coltivata sin da bambina. L’appuntamento senza sconti con la malattia mentale, che si conclama anni dopo come sindrome bipolare, segna un passaggio tra il prima e il dopo.  I ricoveri ospedalieri e la fatica di quei giorni sono all’origine della sua nuova spinta creativa, quando mette vie matite e colori e comincia a scrivere. I suoi brevi racconti si fanno sempre più fitti, prima sulle bacheche dei social network e ora, per la prima volta, raccolti in un libro.

Tutti i racconti, intrisi della proverbiale amarezza della creatività di Danielle, trattano il tema della sconfitta e della perdita, senza alcuna deriva sentimentale né pretesa di riscatto individuale.

Sono soprattutto donne le protagoniste dell’universo creativo di Danielle, il solo soggetto umano che ha sempre ritratto nei suoi quadri, in una sorta di ossessione monotematica. Nei racconti invece, come linfa nuova, ci si presentano per la prima volta anche protagonisti maschili: Giovanni, lo zio Marcel, il professor Pedretti…

«Sono nata e cresciuta in un contesto prevalentemente femminile: le sorelle, le amiche, gli amori … donna sono poi io, un cammino di identificazione faticoso e non scontato, al cui traguardo approdo felice in età avanzata, appena in tempo per incontrare l’altro sesso».

È proprio una casa editrice di stampo femminista che si è fatta carico di lanciare questo primo libro, VandA Edizioni: «devo tutto ad Angela di Luciano e Vicki Satlow, due matte, talmente matte da investire su di me. Comunque, non amo cadere nel cliché del femminismo che dipinge le donne come creature angeliche. Le mie donne sono vere, crude, capaci di compiere il male, né più né meno degli uomini».

«Questo libro nasce sotto l’ala di un miracolo, che mi ha consentito di uscire dalla notte della malattia e di venirla a raccontare. Ma la ragione più profonda è racchiusa nella dedica a Barbara, mia sorella, che da sempre è l’ispiratrice più profonda della mia creatività. Sarebbe corretto dire che il libro è stato scritto a due anime».

È forte anche il tema dell’ebraismo, da cui «non si scappa». Ma è quell’ebraismo contaminato, laico, che si sono portate dietro tante famiglie esiliate: «una rete di superstizioni, modi di fare, modi di dire, trasmessi alle generazioni ‘occidentalizzate’». Un ebraismo con il quale la scrittrice ha sempre avuto un rapporto controverso, tra tentativi di assimilazione e riscoperta delle origini. Per un ebreo «è inevitabile fare ritorno. Io non sapevo che avrei scritto un libro sugli ebrei, ma alla fine devo riconoscere che l’ebraismo è la struttura portante del mio libro».

Anche il titolo parla di ebraismo: «Papà mi raccontava che quando viveva in Libano gli ebrei spesso venivano chiamati cani, e a Beirut non ci sono più cani».

I racconti sono per la maggior parte ispirati a episodi autobiografici – benché senza alcuna pretesa di realismo – giocati in bilico tra la modernità occidentale e la cultura secolare araba. Altri racconti, ambientati negli anni dell’esodo ebraico dai paesi arabi, si svolgono in Libano, Egitto, Siria, in una sorta di omaggio tardivo verso quel che non c’è più. Non mancano ulteriori personaggi claudicanti, presi in prestito dai tempi presenti: la piccola, pura Mirella nelle mani di una nonna avida; il portinaio Mario che abusa della giovane inquilina; Alda, la donna che vuole fare un figlio su commissione perché ha bisogno di soldi…

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“Senza azione”. Un libro di Antonella Ortelli.

Articolo di Alba Robustelli originariamente apparso qui 

Agilissime, e pure senza numerazione sono le pagine di questo libretto di Antonella Ortelli, per sperdersi come dentro un bosco o nell’erba, un fanciullino ci vedrebbe interessanti cose reali: formiche, grilli, piccole cavallette e maggiolini, e persino al crepuscolo le lucciole.

E basta aprire la biografia, prime dieci pagine, poi una o due qui e là…  qualsiasi parola o riga, ne resti incantata progressivamente, sempre di più, e ancora di più… Dovendo smettere, per un arrivederci, mi sono accorta che non lo volevo lasciare, e ne ho morso un pezzetto di copertina, in alto, a sinistra. Ha un aroma giapponese ed una carta soavissima.

Autocoscienza siamo in poche, ma tutte lo siamo con buona ragione – questo libro ci rappresenta tutte. Chi può, lo legga. Poi, se vuole, lo distribuisca: è snellissimo e scivola in tasca. In più: merita di trovare piccole e grandi lettrici, e soprattutto visibilità. Perfetto regalo ad amiche ed amici preziosi, ai familiari…, insegnanti, vicini di casa simpatici, all’infinito…Sinteticamente ecco la mia opinione personale: un piccolo inaspettato capolavoro. Qualcuna vi leggerà Antonella, altre se stesse o proprie sensazioni…

È poesia pura ed autocoscienza pura: ma con un particolare carattere; e ancora di più c’è da intravvedere…
Grazie oceanico a chi ha aiutato l’autrice in questo lungo travaglio (Anna Teruzzi che ne ha curato la grafica e Cosimo Quartana per il bel ritratto), lei che, come anguilla, si tutela da ogni forma di autoincensamento o autoinganno.
Lo proporrò a chiunque ne sia degno, è talmente poetico… e pochi leggono.

Ma la poesia è immortale. Chiudo e… ritorno al sonno soave, sto  insieme alla mia bestia preferita di oggi. Una capra. E domani quale bestia? Onore a tutte, tutte. Me lo appoggio e dormo sulla pagina, beatamente sino all’alba. Mi bastano altre due ore di sonno, d’ogni sogno…

Senza azione (Milano, VandA edizioni, 2022) verrà presentato nello Spazio da Vivere della Casa delle Donne giovedì 19 gennaio 2023, alle ore 18:00.

Dialogheranno con l’autrice Annamaria TeruzziChiara MartucciGiulia Kimberly ColomboGiuliana Peyronel.
Azione teatrale di Irene Quartana.

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Le disobbedienti. Una biografia di Vita Sackville-West celebra la scrittrice Aphra Behn. Che fu una spia internazionale

Riportiamo di seguito l’articolo di Francesca Vitelli su Aphra Behn, l’incomparabile Astrea, comparso originariamente qui.

Riuscire a far sì che non vi sia distinzione nel mondo del lavoro tra uomini e donne è una battaglia, iniziata secoli fa, ancora in corso. Alcune donne, con coraggio e tenacia, hanno aperto la strada sfidando le regole sociali che ne impedivano l’accesso alla sfera pubblica e a un qualsiasi impegno remunerato.
Aphra Behn (1640-1689) fu una di loro.  La sua storia, raccontata nel 1927 dalla scrittrice Vita Sackville-West, è da poco stata pubblicata da VandA edizioni con la curatela di Stefania Arcara.
A voler consegnare ai posteri la storia di una artista dimenticata nelle pieghe del tempo sono – come spesso accade – altre donne. Arcara introduce la lettura del testo di Sackville-West illustrando l’importanza delle scelte compiute dalla protagonista:  «Quando nel 1927, Vita Sackville-West celebra Aphra Behn come la prima scrittrice inglese professionista inaugura una storia letteraria femminista che, attraverso Virginia Woolf, arriva fino a noi. Aphra Behn. L’incomparabile Astrea è una biografia dai toni leggeri che illumina di luce nuova la maggiore scrittrice del Seicento inglese e la sua vita straordinaria, ma è anche un primo tentativo di analisi del rapporto tra donne, scrittura e professione letteraria, nonché fonte di ispirazione per il celebre saggio “Una stanza tutta per sé” che Virgina Woolf pubblicherà nel 1929».
Chi era Aphra Behn? Una donna fuori dal comune che visse esperienze precluse alle sue contemporanee: compì un viaggio in un lontano luogo esotico, il Suriname, fu una spia internazionale, visse la drammatica esperienza del carcere a causa dei debiti insoluti e scrisse apprezzate commedie per il teatro, contribuì alla definizione del canone letterario del romanzo moderno, compose poesie, tradusse testi e si occupò di propaganda politica.
Con lo pseudonimo di Astrea, scelto per il ruolo di agente segreto, si affermò sulla scena letteraria inglese del periodo della Restaurazione conquistando la fama. Suscitò curiosità e pettegolezzi attirando gli strali maschili per la scelta dei temi trattati e per il linguaggio usato: scriveva di sesso senza reticenze, era avvenente, intelligente, brillante e voleva divertirsi.
Per il suo essere e comportarsi come una libertina fu più nota come persona che come autrice, osava agire come gli uomini poiché non si negava né il piacere né il gusto di raccontarlo. Non solo scriveva non per passatempo ma per procurarsi da vivere, cosa già di per sé esecrabile ma, di più, scelse la drammaturgia, un’arte che si praticava in un luogo licenzioso e peccaminoso, un luogo dove le attrici erano assimilate alle prostitute: il teatro.
Dopo il claustrofobico periodo del puritanesimo con la Restaurazione si affermava la voglia di assaporare la sensualità della vita e i ruoli femminili sulle scene non erano più interpretati da ragazzi imberbi ma da donne.
Astrea costruiva i testi in modo diverso dagli altri autori, con lei il punto di vista diventa quello femminile, una donna padroneggia i canoni della commedia al pari dei colleghi e ha l’ardire di innovarli. Con il prologo e l’epilogo, formule in voga, si rivolgeva direttamente al pubblico per commentare il lavoro che presentava, le interessava la possibilità di indagare e affermare una prospettiva femminile per il libertinaggio: una donna, soprattutto non sposata, poteva scegliere di vivere come una libertina?
 «Sono certa che nessuna commedia sia mai stata scritta con quell’intento (riformare la moralità ndr)[…]; di certo le commedie si scrivono per esercitare le passioni umane, non per comprenderle».
Scrivere con un intento pedagogico, moralistico o di indirizzo non era cosa che suscitasse il suo interesse, la possibilità di esprimersi essendo sé stessa senza limitazioni per il solo fatto di essere una donna era l’intento che perseguiva. Consapevole del doppiopesismo nell’attribuzione dei codici di comportamento tra i due sessi affrontò il tema smascherando la trappola nella sua commedia più nota “The Rover” (1677) ambientata a Napoli durante il carnevale.
La festa carnevalesca è il contesto adatto per mostrare lo scambio dei ruoli in cui le dame si comportano da prostitute e viceversa poiché il destino delle donne è segnato dalla dipendenza economica che le incatena ad un uomo. Nei testi portati in scena la realtà predomina, per le donne non c’è possibilità di scelta al di fuori del matrimonio.
Sackville-West analizza lo stile letterario facendo emergere le contaminazioni francesi e spagnoli di moda per i romanzi di cappa e spada che fiaccavano la sua bravura inserendo manierismi che smorzavano le brillanti sferzate delle battute.
 «L’importanza del fatto che una donna borghese come Aphra Behn si sia guadagnata da vivere con il proprio ingegno – osserva Woolf sulla scia di Sackville-West – è maggiore di qualunque cosa ella abbia scritto». Allargando la visione, Woolf aggiunge che con Aphra Behn comincia per le donne la “libertà della mente”, attribuendole non semplicemente la capacità di guadagnare denaro, ma il merito di avere dimostrato la possibilità per le donne di una libertà di pensiero e di parola, una volta conquistata la propria autonomia.
Woolf, dunque, distingue accuratamente il successo professionale di Behn dalla qualità estetica della sua scrittura, ritenuta irrilevante, proprio come prima di lei aveva fatto Sackville-West. Le donne che ci presentano Aphra Behn concordano su questo aspetto e Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” aggiunge:  «Tutte le donne insieme dovrebbero cospargere di fiori la tomba di Aphra Behn». Il testo pubblicato da VandA edizioni è interessante sotto diversi aspetti e chiavi di lettura: l’analisi letteraria, la ricostruzione storica, la visione femminista. Donne che, attraverso un passaggio di testimone nei secoli, scrivono di letteratura, sociologia, politica, spionaggio e altro perché non esistono lavori da uomini e lavori da donne. Esistono il talento, il coraggio e la tenacia.

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Il demone amante di Robin Morgan di Margherita Giacobino

Riportiamo di seguito l’intervista a Robin Morgan a cura di Margerita Giacobino, comparso originariamente su Erbacce. Illustrazione di Anna Ciammitti

È stato recentemente ripubblicato Il demone amante. Sessualità della violenza, di Robin Morgan (a cura di Maria Nadotti, Vanda Edizioni) apparso per la prima volta nel 1989, e poi con una nuova prefazione nel 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle. In questo testo allo stesso tempo vasto e personalissimo Morgan smaschera la cultura della violenza insita nel pensiero patriarcale a tutti i livelli, dalla religione alla filosofia all’estetica all’immaginario sessuale, e denuncia la mistica del terrorismo anche alla luce del proprio vissuto di ex appartenente a gruppi armati di estrema sinistra e poi di femminista disarmata, riportando anche la sua esperienza con donne dei campi profughi in Medio Oriente.
In questa occasione Margherita Giacobino ha intervistato Robin Morgan sul tema della “normalità” della violenza e del terrore oggi. 
(NdR)

Nel tuo libro inizi mettendo in evidenza il nesso tra terrorismo e mascolinità.
Il terrorista… è l’idolo sessuale per eccellenza di una tradizione culturale maschilista che si estende dai tempi pre-biblici a oggi: è la logica estensione dell’eroe/martire patriarcale. È l’amante del demone e la società ne è (segretamente o apertamente) affascinata.
Cosa è cambiato da quando l’hai scritto?

Troppo poco, temo! Questo tipo di cambiamento profondo richiede molto tempo. Nella maggior parte degli ambiti – lo Stato costituito (di destra o di sinistra) così come le forze insurrezionali (di destra o di sinistra), la religione, la filosofia, l’estetica, nella sfera personale come in quella politica – siamo ancora impregnati di violenza maschile, dell’euforia del terrore, della democratizzazione e della normalizzazione della sofferenza. Guardate l’Ucraina.  È vero che le donne hanno fatto breccia nel potere, e ne hanno perfino in parte cambiato il concetto. Ma le forze schierate contro di noi sono passate al contrattacco (attualmente, si tratta della destra violenta). Vedo la rivolta delle donne in Iran come nettamente diversa, nelle tattiche, nella leadership e nel tono – meno spavalderia, più sostanza – con gli uomini che finora si sono uniti ma non hanno cercato di prendere il sopravvento, il che di per sé è un enorme progresso. In questa rivolta, oltre a rabbia e dolore, risuona anche una nota di vera gioia. Ricordo in particolare un video di una giovane donna che balla e volteggia per strada, facendo roteare la sciarpa sopra la testa e scuotendo i lunghi capelli al sole – e ridendo. Credo che questa possa essere la prima rivoluzione delle donne in epoca contemporanea.

C’è ancora la tendenza a isolare il femminicidio come un crimine radicato nella psiche dell’individuo e/o in un contesto degradato, mentre tu sottolinei la stretta relazione che esiste tra la violenza dell’individuo e la violenza dello Stato, e ci dici che il femminicidio e la violenza domestica sono atti di terrorismo patriarcale.
In che modo il recente femminismo, e in particolare MeToo, ha contribuito alla consapevolezza di questa relazione?

Ha contribuito notevolmente ad aiutare le persone a cogliere il continuum, a capire le connessioni. Per esempio, in quasi tutti i casi di uccisioni di massa tramite sparatorie – non solo negli Stati Uniti, dove il tasso di armi è deplorevolmente alto e dove accadono quasi ogni giorno, ma in tutto il mondo – chi ha sparato ha iniziato accanendosi contro le donne. Non è un’esagerazione. È un dato statistico facilmente reperibile con una ricerca minima, ed è presente nel 99% dei casi, il che ci invita a pensare a cosa significhi veramente. Aumentare la consapevolezza è sempre salutare.

Per controllare la popolazione, bisogna controllare il corpo delle donne. Da lì si passa al controllo della sessualità di tutti: omofobia, mutilazioni genitali femminili, matrimoni combinati, matrimoni infantili, purdah, ecc.
Il tuo libro è per molti versi profetico, vista l’attuale virulenza in varie parti del mondo occidentale degli attacchi anti-aborto, omofobici, ecc.

Sì, purtroppo è profetico. L’ascesa delle destre etremiste in molti Paesi, compresi gli Stati Uniti con Trump, è stata parte di un contraccolpo violento e tossico contro le donne, contro le loro anche minime conquiste, per non parlare degli uomini di colore, degli omosessuali, dei profughi, degli ebrei, delle persone diversamente abili e così via. Sospettavamo che ciò potesse accadere. Ma non ci fermeremo, anche se certi giorni sembra che quello che chiudi fuori dalla porta entri dalla finestra. Sì, era previsto, eppure sembra ancora irreale come un incubo.

In opposizione al pensiero patriarcale, assolutista e binario, tu invochi le virtù (femminili) dell’ambivalenza: pazienza, compassione, consapevolezza, complessità. 
L’ambivalenza come superamento della violenza istintuale – le donne, che sono più ambivalenti, sanno che non si vince con la forza, mai, quindi cercano di risolvere i problemi in altri modi – non si tratta né di ingenuità né di utopia, ma di senso pratico. 
Abbiamo fin troppo sotto gli occhi le donne della destra populista e le sostenitrici di Trump. Dove vedi invece operare l’ambivalenza salvifica delle donne?

In Iran, per fare un esempio, è l’intelligenza, non l’essenzialismo, che sta emergendo… in modo imperfetto ma chiaro. Il 12 luglio 2022 è stata proclamata la “giornata nazionale dell’hijab e della castità”, istituita dal presidente iraniano Ebrahim Raisi che ha introdotto una serie di regole ancora più draconiane per far rispettare i codici di abbigliamento delle donne.È sempre una questione di controllo, e inizia sempre con il controllo delle donne. È stato annunciato che i funzionari governativi inizieranno a utilizzare tecnologie di riconoscimento facciale sui mezzi di trasporto pubblico per identificare chi trasgredisce. Inoltre, il ministro di gabinetto del “quartier generale iraniano per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” ha annunciato che le impiegate del governo saranno licenziate se le loro foto sui social media non risulteranno conformi alle nuove regole. Dal 2015 il governo iraniano ha introdotto gradualmente le carte d’identità biometriche. Un’ampia fetta della popolazione è ora presente in questa banca dati.
Poco dopo il ritorno dall’esilio dell’Ayatollah Khomeini nel 1979, le prime a scendere in piazza furono le donne che protestavano contro l’obbligo dell’hijab. E non dimentichiamo che molte figure cosiddette liberali, che in seguito furono disilluse dal “governo rivoluzionario”, si rifiutarono di criticare l’hijab obbligatorio, osservando sprezzantemente: “Non parliamo di un pezzo di stoffa sulla testa delle donne. Non è questo il problema”. Dissero che il problema era lo scià e l’economia e fecero appello all’unità. Ma come ci ricorda la studiosa Fatemeh Shams, una volta fermate le proteste, le donne hanno dovuto indossare l’hijab. Nessuno dei partiti politici che hanno preso il potere, compresi i riformisti della metà degli anni ’90, ha posto come priorità la lotta o l’abolizione dell’hijab obbligatorio.
Inoltre, il nuovo presidente Raisi ha inasprito il codice di abbigliamento e altre restrizioni: tre donne sono state arrestate per aver ballato in pubblico e condannate a un anno di prigione e 91 frustate, 33 saloni di parrucchieri sono stati chiusi e 1700 persone sono state convocate presso i centri di polizia per questioni legate all’hijab. Raisi, molto più integralista del suo predecessore Rouhani, ha intensificato il programma di islamizzazione della nazione e il movimento delle donne rappresentava una minaccia alla sicurezza nazionale, in quanto rappresentava una violazione delle norme sociali. La “legge sulla popolazione” introdotta nel novembre 2021 limita l’accesso all’aborto e alla contraccezione allo scopo di aumentare la natalità in calo in Iran – parte di un processo politico che mira a riportare le donne a casa. Le confessioni forzate, nel frattempo, sono in aumento.
Shams, che insegna letteratura persiana all’Università della Pennsylvania, osserva che “si può farsi un’ idea di un episodio o movimento rivoluzionario dai suoi slogan. Qui lo slogan principale è Donne, vita, libertà, mentre il movimento rivoluzionario del 1979 proclamava soprattutto Pane, lavoro, libertà, lo slogan centrale del Partito Comunista del Lavoro, ispirato al movimento rivoluzionario in Russia”. (È interessante notare che, a differenza del 1979, questa rivolta è trasversale a diverse classi, un fatto notevole in una società classista come l’Iran. La stessa Mahsa Zhina Amini proveniva da famiglia modesta e da una città curda di confine). Shams prosegue affermando che il fulcro di questo movimento è la rivendicazione della libertà del corpo delle donne, e lo slogan deriva dal movimento di liberazione curda ed è il frutto di decenni di impegno delle donne curde in una delle regioni economicamente più svantaggiate dell’Iran. Come sottolinea Shams,questa rivoluzione è senza leader: le persone nelle strade non aspettano che qualcuno prenda il comando. Sono loro i leader. È un punto di forza che questo movimento non si sia coalizzato dietro un leader o un partito politico, il che ha reso molto difficile per le forze di sicurezza reprimerlo. E ci hanno provato! Hanno effettuato arresti di massa di giornalisti e di potenziali leader. I numeri crescono di giorno in giorno, ma al 5 dicembre sappiamo che almeno 244 persone sono state uccise e 125.000 sono state arrestate, tra cui 29 giornalisti, 20 attivisti e 19 insegnanti, secondo i rapporti del governo.
Tutto questo, oltre alla cronica e grave oppressione della popolazione curda e alla repressione dei giovani, ha finito per sfociare in un’esplosione. Oggi vediamo stazioni di polizia, autopompe e fermate degli autobus in fiamme; gruppi di studenti che occupano più di 110 facoltà e centri educativi, uno sciopero nazionale nelle università; i campus delle università di Teheran, di Tabriz e di Sharif invasi da centinaia di poliziotti anti-sommossa che arrestano o tengono in ostaggio i manifestanti. Ma si tratta soprattutto di violenza contro la proprietà. I video continuano ad arrivare, ma anche i proiettili. Le ragazze adolescenti sono in prima linea: Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh, entrambe sedicenni, sono morte dopo aver partecipato alle proteste.
Nassrin Sotoudeh, l’avvocata per i diritti umani che ha rappresentato molte donne processate o condannate per non aver osservato l’hijab obbligatorio, ha dichiarato di recente: “Questo movimento senza leader è guidato da donne che compiono un unico atto rivoluzionario: non portano armi. La sola cosa che fanno è togliersi qualcosa dalla testa e camminare per le strade dell’Iran. L’immagine di questa rivoluzione è il corpo di queste donne senza veli che camminano per strada senza fare del male a nessuno. E questo non ha precedenti”.

Negli anni Sessanta tu hai fatto parte di gruppi di sinistra coinvolti anche in azioni violente, e in seguito sei stata tra i fondatori di W.I.T.C.H. (Women International Terrorist Conspiracy from Hell), che ha inscenato proteste contro Wall Street, contro Nixon, ecc. In che modo il “terrorismo” delle streghe femministe è profondamente diverso da quello dei gruppi politici maschili?

Be’, per prima cosa, avevamo – e abbiamo ancora – il senso dell’umorismo! Lo humor purtroppo spesso scarseggia a sinistra – e di sicuro non lo si trova a destra! Quindi il nostro tono scanzonato e il nostro teatrino di guerriglia ci hanno aiutato in questo senso, e sono serviti anche a coprire aspetti di altre nostre azioni – come spruzzare colla industriale nelle serrature della Borsa di Wall Street nel bel mezzo della notte, per poi “lanciare un incantesimo” per non far aprire le porte. Che ovviamente non si aprirono. Credo che questo – la nostra cattiveria trionfante, la nostra sfida – sia il motivo per cui W.I.T.C.H persiste come fenomeno popolare ancora oggi; a distanza di 50 anni, le giovani donne vogliono ancora farne parte.  Sembrano sapere che, se la retorica marxista ti annoia fino al coma, il W.I.T.C.H. ti darà respiro! Non è stata Emma Goldman a dire: “Se non posso farla ballando, non è la mia rivoluzione”?

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Le donne e i veri tabù sulle pari opportunità. Lettera a Roccella

Al direttore – Gentile ministra Roccella, affrontiamo prima i due argomenti che di questi tempi sembrano al centro del mondo. Primo: come vede la chiamo ministra. Che di una donna voglia usare per sé il maschile è solo segno di quella miseria che si attacca tristemente alla pelle delle donne quando sentono di non avere storia. Un gesto ai miei occhi drammatico e triste. Secondo: sono proprio d’accordo con lei, l’aborto è il lato oscuro della maternità. Ma non è il solo. La maternità può essere oscura in sé quando non è desiderata. Può essere un abisso. Disgraziato chi viene al mondo senza il desiderio della madre.

Per questo considero l’aborto una necessità prima che un diritto. L’autorizzazione ogni donna l’ha presa dalla storia delle donne a fronte di ogni interno promesso o prigione minacciata e questo sarà sempre così. Ho letto che ha accettato il suo incarico volentieri perché il ministero delle pari Opportunita e stato un ministero voluto dal movimento femminista. Mi permetto di correggerla. Non è stato così.

Noi femministe non abbiamo mai chiesto un ministero delle Pari Opportunità. Dal primo momento in cui fu costituito lo abbiamo considerato un luogo pericoloso e ambiguo. Si dava alle donne l’idea che finalmente avessero una “stanza tutta per sé” e di questo avrebbero dovuto essere contente e soddisfatte. In realtà si voleva creare un mondo a parte delle donne, metterle in un angolo. Non era un’apertura, era un recinto. Le pari opportunità sono state la risposta delle istituzioni alla grande creatività del femminismo, il modo di arginare la sua grande potenza. Io lo chiamo femminismo di Stato.

Le donne non sono una categoria, una minoranza, sono fondanti della società, che infatti senza donne non esisterebbe, a loro, in quanto cittadine libere e contribuenti, spettano tutti i ministeri, quello del lavoro, quello della sanità, quello dell’economia, quello dell’istruzione…insomma tutti. Così scrivevo nel 1996 alla ministra Finocchiaro, parlando di questo imbroglio. Da allora a oggi questo Ministero, che non ha fatto cose da ricordare, è stato sempre senza portafoglio e questo la dice lunga. La Ministra sempre si deve arrabattare a elemosinare fondi di qua e di là. Così i progetti diventavano progettini, convegni convegnucci e le ambizioni si fanno piccole piccole. Per lei ministra Roccella mi sembra anche che il carico si sia appesantito perché alle pari opportunità sono state aggiunte natalità e famiglia, due carichi pesanti.

Quindi la mia raccomandazione vale anche per lei: non si arrenda all’imbroglio del “mondo a parte”, per di più povero in canna, le donne non lo meritano. Anche perché adesso le donne sono cambiate e non si chiedono più se sono capaci di fare quello che fanno gli uomini ma cominciano a pensare di saperlo fare meglio.
Siamo oltre le pari opportunità. Si avvicina il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza alle donne. Si celebra dappertutto, soprattutto nelle scuole. Lei vedrà giovani ragazze truccate con occhi neri, bocche cucite da filo di ferro, teste spaccate, sangue e anche manifesti per la città, con immagini orrende.
Difficile camminare quel giorno con una bambina per mano, ma anche con un bambino, che possono chiederti cosa significa e tu non vuol rispondere, perché il messaggio che è sotteso a tutto questo è “Potrebbe succedere anche a te”. Perversamente sta diventando una festa, io lo chiamo il nostro Halloween. È la grande giornata del soggetto per eccellenza del femminismo di Stato: la vittima. Quel giorno tutte le donne diventano vittime, di chi non si dice.

Possibile non ci si accorga dell’ambiguità di tutto questo? La violenza alle donne è una tragica realtà a cui si deve porre rimedio ma non è un tema politico. Eppure tutti i partiti non sanno fare che questo, il perché è chiarissimo a chi lo sa vedere: la donna vittima, in realtà, rassicura tutti che nulla sta cambiando veramente e che l’ordine patriarcale della società non corre ancora alcun pericolo. La politica celebra proprio questo, anche se non lo sa. Io potrei suggerirle di istituire un minuto di silenzio da osservare nelle scuole, negli uffici pubblici, contro la violenza degli uomini sulle donne. Ma avrebbe difficoltà a fare passare questa proposta. Passerebbe invece la versione alleggerita, un minuto contro la violenza alle donne. Violenza anonima. Sono molto contenta che lei si dichiari femminista perché allora si accorgerà della falsa politica e lavorerà non sulla debolezza delle donne, non sulla loro vulnerabilità – siamo tutti vulnerabili – ma sulla loro forza che è immensa. Poche femministe sono entrate nei palazzi e debbo dire che non hanno fatto granché, presto prese in una logica estranea, costumi e usi che toglievano loro la parola piuttosto che darla. Spero non sarà così per lei. Comunque sarà difficile. Sa perché?

Perché le donne non hanno bisogno di pari opportunità ma di opportunità in più. Bisogna saper fare delle ingiustizie per loro, uscire dall’idea di risarcire le donne ed entrare nell’idea di investire su di loro per una vita dignitosa per tutti. Ma le difficolta sono due, molto grandi. La prima è che gli uomini sono vecchi e non sono pronti alla libertà delle donne e sono attaccati al potere, magari non per cattiveria, ma per abitudine. Qualsiasi obbrobrio della storia, e ce ne sono stati tanti tutti prodotti dalle loro decisioni, non li ha mai disautorizzati al potere. La seconda è riuscire a far guardare alle donne l’umanità, come un contadino guarda un campo al grano, come a una loro opera. Se le donne non trovano in se stesse il senso grande di essere al mondo, poco potrà cambiare. Questo significa riuscire a superare fatti i secoli di negazione, di emarginazione, umiliazione, ignoranza che hanno fatto credere alle donne di essere meno, di essere umanità minore e che le ha fatto pensare, come unica via per fuggire da un destino pesante, di volere essere uguale agli uomini, perdendo il senso prezioso della loro differenza e la loro storia e la loro forza. Ministra Roccella si metta all’ascolto delle giovani donne che per vivere fanno tre o quattro lavori contemporaneamente, che Dio sembrerebbe averle abbandonate, che la Patria con loro è più che avara e che la Famiglia per loro è un sogno impossibile. E sia così brava da riuscire a capire quello che le donne stanno dicendo senza parole. Tra i suoi mandati c’è la natalità. Le donne fanno meno figli, è un fatto.

Questo mette in pericolo la società tutta, la sua sopravvivenza. Se da femminista guarda a questo, saprà capire che non fare figli è il giudizio più severo che le donne danno a questa società, alla sua organizzazione, alle scelte delle sue priorità. Fare figli per le donne non è più un destino, è una scelta e la sentenza è amara per tutti. Questa è la guerra delle donne, che non è come quella degli uomini che fa morti. La guerra delle donne non fa più vivi. Quindi c’è da mettere mano a tutto, lavoro, sanità, scuola, casa, imprese, organizzazione della vita… Sarà così coraggiosa da mettere bocca dove non è prevista la sua voce? Da presentarsi dove non è aspettata? Perché questo deve fare, uscire dall’angoletto che le hanno riservato e trasformare il suo ministero in un laboratorio operoso al lavoro per una diversa visione della società senza servi né serve, lavoro che sicuramente gli altri ministeri non si sognano di fare, né ne sarebbero capaci.

Le auguro buon lavoro.

Alessandra Bocchetti, scrittrice

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“Basta Lacrime” su D di Repubblica

Un femminismo senza piagnistei. Militanza, battaglie, sapienza e nessun vittimismo: gli scritti di Alessandra Bocchetti. A cura di Nadia Fusini.

Sì, BASTA lacrime! Ha ragione Alessandra Bocchetti, intellettuale femminista, a intitolare cosi il suo libro, che è, come suona il sottotitolo, la Storia politica di una femminista, e raccoglie interventi e saggi e prose di vario genere, alcune anche intime, lettere, appunti, diari, di un arco di tempo che va dal 1995 al 2020, quindi dal suo e nostro passato prossimo al presente.
Il libro esce per una casa editrice libera e benemerita, Vanda Edizioni, che nel suo catalogo sfoggia tra le scrittrici italiane Lonzi, Mafai, Rossanda, tra le straniere Robin Morgan, Lou Salome.. Se si concentra sulle donne, è perché il mondo ha sempre più bisogno della sapienza femminile, ci spiegano Vicki Satlow,Angela Di Luciano, Silvia Brena, che tale casa editrice dirigono.

In effetti, di sapienza femminile è ricco il libro di Bocchetti, che vanta un pedigree di tutto rispetto in tale campo, e cioè nell’ascolto del pensiero delle donne, alla causa femminista avendo dedicato, semplicemente, la sua vita. O, se volete, più praticamente la sua azione.  «Chi scrive è nata donna» ci avverte da subito l’autrice. E in quanto tale, aggiunge: «si vanta di non aver deciso guerre, stermini, persecuzioni». Semmai ha cercato di «cambiare il mondo». Semmai, da donna consapevole di sé, dei propri diritti e doveri, ha provato a «rendere più civile» il mondo in cui abita. Ecco l’avventura che in queste pagine una donna intellettuale, intraprendente e coraggiosa ci racconta. Nei vari capitoli del libro la seguiamo nelle varie imprese in cui s’è azzardata perché venisse riconosciuta la speciale intelligenza del mondo che si incarna nel pensiero delle donne: perché ii mondo sarà irrimediabilmente più povero e più stupido finché si ostinera a non riconoscere la ricchezza della libertà femminile. Finché si rifiutera di comprendere che le donne libere e consapevoli di sé sono un prezioso dono civilizzatore.

A cominciare dalla fondazione alla fine degli anni 70 del secolo scorso del Centro Culturale Virginia Woolf, quella che chiamavamo l’Università delle Donne, dove sono passate the best
minds di una generazione di donne che insieme cominciarono a riconoscere la loro forza, e a convicersene. Bocchetti non ha smesso di battersi per la differenza. Convinta che non si possa costruire nessun destino, se non si comincia dalla libertà. Libertà di essere se stesse. Libertà di pensare per sé, da sé. Contro attese e aspettative imposte da comodi valori di parte, contrabbandati come leggi universali.

Nadia Fusini

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Quarant’anni dalla comune di Greenham: “Arrivammo contro la guerra. Siamo rimaste per il femminismo.”

Nel 1982 Julie Bindel si unì alle 30mila donne attorno alla base in protesta contro le armi nucleari. Qui racconta il punto di svolta che quella protesta rappresentò per le loro vite.

Di Julie Bindel
(della stessa autrice, Il Mito Pretty Woman)


Nel settembre 1981 trentadue donne, quattro uomini e molti bambini marciarono da Cardiff fino a Berkshire per protestare contro l’installazione di armi nucleari alla base aeronautica inglese di Greenham.

L’anno seguente, le fondatrici dichiararono l’accampamento “per sole donne”, e il campo di pace femminile comune di Greenham divenne uno degli esempi più noti e duraturi di proteste femministe degli ultimi tempi.

Il campo fu costruito attorno alla base RAF per protestare contro il posizionamento di armi nucleari americane su suolo britannico. Affrontando la polizia e i soldati, le donne gridavano: “State dalla parte del suicidio? State dalla parte dell’omicidio? State dalla parte del genocidio? Da che parte state?”

Rebecca Mordan, al tempo una bambina, fu portata a Greenham da sua madre. “Era profondamente catturata dal femminismo radicale,” dice Mordan. “Stava sul palo del telefono, di notte, e faceva la guardia al campo, così che le donne potessero dormire. Era all”Università del Femminismo’.”

Nell’agosto 2021, per nove giorni, Mordan ha ripercorso con decine di donne il cammino che nel 1981 la portò da Cardiff alla comune di Greenham, per concludere il viaggio con un weekend di celebrazioni culminate con l’anniversario della marcia.

“Non vogliamo che le donne muoiano e portino con sé le testimonianze di Greenham”, dice Mordan, che ha lanciato il sito Greenham Women Everywhere (Donne di Greenham Ovunque), e ha curato il libro Out of the Darkness, basato sulle storie del campo.

Tra il 1981 e il 2000, quando il campo fu restituito ai residenti, più di 70.000 donne manifestarono, ballarono, cantarono e agirono in prima persona, tagliando le recinzioni e facendo irruzione nelle torri di guardia. Fu la più numerosa protesta di donne dai tempi del Movimento per il suffragio femminile.

“I missili da crociera furono rimossi, le leggi internazionali cambiarono, la base aeronautica fu restituita al popolo. La base costò agli americani milioni di sterline, e intanto queste donne parlavano alle Nazioni Unite. Migliaia di donne aderirono al femminismo radicale, anche se restavano al campo soltanto una settimana. L’esperienza mostrò loro l’oppressione, fece avvicinare le donne borghesi alle donne operaie. Fu vero femminismo intersezionale,” dice Mordan.

La comune di Greenham e i suoi slogan presto divennero fonte di imbarazzo per il governo britannico e americano.

“Nel 1982, quando mi unii a 30mila donne in cammino per Greenham per ‘abbracciare la base’, l’unico mezzo pubblicitario erano le lettere a catena inviate tramite gruppi di donne. La gente sente parlare di Greenham e pensa subito a donne di mezz’età e si chiude,” dice Mordan.  E invece erano donne di tutte le età, di ogni estrazione sociale che si unirono a Greenham.

“Dobbiamo portare avanti l’eredità delle donne di Greenham. I ragazzi e i giovani chiedono sempre ‘Perché non ci hanno parlato di questo? È un furto culturale’”, dice Stephanie Davies, donna di Greenham e autrice di Other Girls Like Me.

“Quando si parla di Extinction Rebellion, si fa spesso riferimento alle Suffragette, ma non si parla mai delle donne di Greenham,” spiega Davies. “Il campo mi offrì un riparo dalla violenza maschile, lo trovai lì in altre donne, specialmente quelle in fuga da relazioni abusive.”

Ricordo che frequentavo un club per sole donne ad Islington il venerdì sera. Da un van scendevano le donne di Greenham, per rinfrescarsi al bagno prima di ballare senza sosta e bersi una pinta. Si riconoscevano da subito per i loro tagli alla moicana colorati e i loro vestiti sporchi, che sapevano di legna bruciata.

Con la vita al campo, molte donne eterosessuali sposate si resero conto che potevano non aver a che fare con gli uomini e instaurarono relazioni con altre donne. Molti giornali avevano dei pregiudizi e descrivevano le donne di Greenham come “sporche, sozze lesbiche”. Con quella singola espressione di odio diveniva facile condannare il femminismo di sinistra e l’attivismo pacifista in un colpo solo.

Scegliere Greenham non fu facile. Combattevo contro stupro e violenza domestica al tempo, e gli obiettivi di affetto e cura delle donne che protestavano per la pace rientravano negli stereotipi sessisti sulle donne. Vivere al campo, al gelo, e mangiare stufato di lenticchie in continuazione erano un ulteriore deterrente.

Eppure io ero attratta dall’idea di Greenham per due motivi: primo, perché le relazioni lesbiche e i legami stretti tra donne venivano normalizzati, e si apriva la possibilità di rapporti alternativi anche a donne che non li avevano mai presi in considerazione: erano tempi in cui l’omofobia la faceva da padrone, prima della Section 28, e molte donne lesbiche perdevano la custodia dei propri figli contro mariti violenti.

Un altro motivo di fascinazione era il modo in cui le attiviste collegavano le forze dell’ordine, il militarismo, la guerra e le quotidiane forme di violenza maschile contro le donne.

Nonostante il campo, il primo missile di crociera arrivò a Greenham nel 1983, ma le proteste continuarono per tutti gli anni ’80: molte donne furono condotte a processo, sanzionate o persino incarcerate.

Il trattato sulle forze nucleari a medio raggio firmato da Stati Uniti e Russia nel 1987 spianò la strada alla rimozione dei missili di crociera da Greenham tra il 1989 e il 1991. Nel 1992 l’aeronautica americana lasciò la base, poco dopo le forze britanniche fecero lo stesso. Al campo di pace le proteste contro le armi nucleari continuarono fino al 2000.

Oggi, parte di Greenham è un’area produttiva, mentre il resto è divenuto suolo pubblico.

Rebecca Johnson arrivò al campo nel 1981 e visse lì per cinque anni. È direttrice e fondatrice dell’Acronym Insitute for Disarmament Diplomacy, che promuove l’uso della diplomazia per il disarmo nucleare, nonché co-fondatrice della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, e vicepresidente del Centro per il disarmo nucleare.

“Molte di noi si unirono contro le armi nucleari e rimasero per il femminismo. Dopo quarant’anni, sembra che si continuino a combattere le stesse lotte. Abbiamo creato connessioni con le donne che in tutto il mondo vivono guerre e conflitti,” dice Johnson.

Forse la nostalgia contribuisce alla gioia che quel campo donò alle donne che non avevano potuto vivere al di fuori di nuclei familiari eterosessuali, o lontane dal controllo degli uomini. Quelle donne che vivevano in comune su una scala così larga sono probabilmente il più brillante gruppo di autocoscienza femminista in tutta la storia del movimento.

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“La produzione letteraria femminista nella seconda ondata”. Intervista a Deborah Ardilli su Global project

Il 2 aprile 2022 Global project ha pubblicato l’intervista a Deborah Ardilli tenutasi a Book Pride durante il panel “Editoria femminista: l’importanza di mettersi in rete”.

Per leggere l’intervista clicca QUI

 

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“Il caso del cane marrone” di Peter Mason su Il Fatto Quotidiano

Il 23 dicembre 2021 Davide Turrini ha stilato per Il Fatto Quotidiano una top 10 di libri da regalare e leggere a Natale: al quarto posto, Il caso del cane marrone. La storia di un monumento che ha diviso un paese di Peter Morgan.

Ecco un estratto dell’articolo:

Mason, giornalista del Guardian, rievoca una storia sconosciuta fatta di idealità e sensibilità, di lungimiranza antispecista e cieco fideismo scientifico. Oggi di quella statua e di quel cagnetto non c’è più traccia, ma per fortuna c’è questo libro che è racconto di cronaca, di archivio, di costume e di cultura di un’epoca e di un luogo che paiono specularmente alieni e identici all’oggi. Il bastardino così rivive nelle sue atroci sofferenze che sono la tortura di tutti, animali e non, sugli oppressi della terra.

Per leggere l’articolo completo clicca QUI

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Book Pride 2022 – Fiera nazionale dell’editoria indipendente

Dal 4 al 6 ottobre VandAedizioni ha partecipato a Book Pride 2022.

Durante l’evento “Editoria femminista: l’importanza di mettersi in rete”, in collaborazione con Enciclopedia delle Donne e Al3vie, è intervenuta l’autrice e traduttrice Deborah Ardilli, storica del femminismo. Nella sua brevissima lezione ha raccontato il femminismo della seconda ondata attraverso alcune delle autrici simbolo del catalogo VandA, da lei tradotte, svelando i retroscena delle prossime uscite di giugno e settembre de Il nemico principale 1. Economia politica del patriarcato, di Christine Delphy e Il corpo lesbico, di Monique Wittig.

Le nostre editore Angela Di Luciano e Ilaria Baldini, insieme a Raffaella Polverini, Rossana Di Fazio e Margherita Marcheselli, sono state intervistate da Gemini Network per Radio Sherwood.

Potete ascoltare la loro intervista qui.

 

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L’eredità delle donne. Laura Boldrini incontra Gloria Steinem

Il 24 ottobre 2021 in occasione de L’Eredità delle donne, Laura Boldrini, ex presidentessa della Camera, ha incontrato Gloria Steinem, scrittrice e storica attivista statunitense: quello che si è tenuto è stato uno straordinario dialogo sul femminismo che a partire dalla storia del movimento di liberazione delle donne, rivolge lo sguardo alle giovani generazioni e alle ragazze di domani.

Steinem ha ripubblicato con VandA edizioni il suo best seller Autostima, la rivoluzione parte da te. 

 

 

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Manifesto delle femministe russe contro la guerra

Il 24 febbraio, verso le 5:30 di mattina, ora di Mosca, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato una “operazione speciale” sul territorio dell’Ucraina per “denazificare” e “smilitarizzare” questo stato sovrano. Questa operazione era in preparazione da molto tempo. Da diversi mesi, le truppe russe si stavano spostando al confine con l’Ucraina, ma le autorità del nostro paese negavano qualsiasi possibilità di un attacco militare. Ora sappiamo che questa era una bugia.

La Russia ha dichiarato guerra ai suoi vicini. Non ha concesso all’Ucraina il diritto all’autodeterminazione né alcuna speranza di vivere in pace. Dichiariamo – e non per la prima volta – che il governo russo sta provocando guerre da otto anni. La guerra nel Donbas è una conseguenza dell’annessione illegale della Crimea. Noi crediamo che la Russia e il suo presidente non siano -e non siano mai stati- preoccupati per il destino delle persone a Luhansk e Donetsk, e il riconoscimento delle repubbliche dopo otto anni è stato solo un pretesto per l’invasione dell’Ucraina sotto la maschera della liberazione.

Come cittadine russe, e come femministe, condanniamo questa guerra. Il femminismo come forza politica non può stare dalla parte di una guerra di aggressione e di occupazione militare. Il movimento femminista in Russia lotta per i gruppi vulnerabili e per lo sviluppo di una società giusta con pari opportunità e prospettive, in cui non ci può essere posto per la violenza e i conflitti militari.

Guerra significa violenza, povertà, migrazioni forzate, vite spezzate, insicurezza e mancanza di futuro. È inconciliabile con i valori e gli obiettivi essenziali del movimento femminista. La guerra esaspera la disuguaglianza trai sessi e riporta indietro di molti anni le conquiste dei diritti umani delle donne, e non solo. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale: come dimostra la storia, durante la guerra il rischio di essere violentata aumenta moltissimo, per qualsiasi donna. Per queste e molte altre ragioni, le femministe russe e quelle che condividono i valori femministi devono prendere una posizione forte contro questa guerra scatenata dalle autorità del nostro paese.

L’attuale guerra, come dimostrano i discorsi di Putin, viene combattuta anche sotto la bandiera dei “valori tradizionali” dichiarati dagli ideologi del governo – valori che la Russia avrebbe deciso di promuovere in tutto il mondo come un missionario, usando la violenza contro coloro che si rifiutano di accettarli o hanno altre opinioni. Chiunque sia capace di pensiero critico capisce bene che questi “valori tradizionali” includono la disuguaglianza tra uomini e donne, lo sfruttamento delle donne e la repressione statale contro coloro il cui stile di vita, l’autodeterminazione e le azioni non sono conformi alle strette norme patriarcali. La giustificazione dell’occupazione di uno stato vicino con il desiderio di promuovere tali norme distorte e perseguire una “liberazione” demagogica è un’altra ragione per cui le femministe di tutta la Russia devono opporsi a questa guerra con tutta la loro energia.

Oggi le femministe sono una delle poche forze politiche attive in Russia. Per molto tempo, le autorità russe non ci hanno percepito come un movimento politico pericoloso, e quindi siamo state temporaneamente meno colpite dalla repressione statale rispetto ad altri gruppi politici. Attualmente più di quarantacinque diverse organizzazioni femministe operano in tutto il paese, da Kaliningrad a Vladivostok, da Rostov-on-Don a Ulan-Ude e Murmansk. Chiediamo ai gruppi femministi russi e alle singole femministe di unirsi alla Resistenza Femminista Anti-Guerra e di unire le forze per opporsi attivamente alla guerra e al governo che l’ha iniziata. Chiediamo anche alle femministe di tutto il mondo di unirsi alla nostra resistenza. Siamo molte, e insieme possiamo fare molto: Negli ultimi dieci anni, il movimento femminista ha guadagnato un enorme potere mediatico e culturale. È ora di trasformarlo in potere politico. Siamo l’opposizione alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo e al militarismo. Siamo il futuro che prevarrà.

Facciamo appello alle femministe di tutto il mondo:

Unitevi alle manifestazioni pacifiche e lanciate campagne in presenza e online contro la guerra in Ucraina e la dittatura di Putin, organizzando le vostre azioni. Sentitevi libere di usare il simbolo del movimento Feminist Anti-War Resistance nei vostri materiali e pubblicazioni, così come gli hashtag #FeministAntiWarResistance e #FeministsAgainstWar.

Distribuite informazioni sulla guerra in Ucraina e sull’aggressione di Putin. Abbiamo bisogno che il mondo intero sostenga l’Ucraina in questo momento e che si rifiuti di aiutare il regime di Putin in qualsiasi modo.

Condividete questo manifesto con altri. È necessario mostrare che le femministe sono contro questa guerra – e qualsiasi tipo di guerra. È anche essenziale per dimostrare che esistono ancora attiviste russe che sono pronte a unirsi in opposizione al regime di Putin. Ora siamo tutte in pericolo di persecuzione da parte dello stato e abbiamo bisogno del vostro sostegno.

 

Si ringraziano Maria Celeste e The feminist post per la traduzione.

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“Ricordando Raphaël e Giulia Mafai” sulla newsletter L’Arte di Domani di Demetrio Paparoni

La newsletter L’Arte di Domani di Demetrio Paparoni del 5 marzo 2022 ha incluso un bellissimo omaggio alla memoria di Antonietta Raphaël e di sua figlia Giulia Mafai, autrice di Agenda rossa. 

Di seguito, un estratto della newsletter:

“Ho conosciuto Giulia mentre scrivevo il mio libro Il bello, il buono e il cattivo, come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni. (Neri Pozza). Avevo letto il suo La ragazza con il violino (Skira, 2013), che è molto più che una biografia di Raphaël, e avevo chiesto alla casa editrice di mettermi in contatto con lei per avere alcune informazioni. Ne era nata un’amicizia e da allora Giulia era diventata la prima persona cui mi rivolgevo quando mi occorrevano notizie di prima mano sull’ambiente dell’arte italiana, e su quello romano in particolare, negli anni della Seconda guerra mondiale e del primo Dopoguerra. Di Giulia Mafai, costumista, scenografa e autrice di una Storia del Costume dall’Età Romana al Settecento (Skira, 2011), è appena stato pubblicato Agenda rossa (Vanda edizioni), un romanzo che inizia ai nostri giorni ma si riallaccia a una storia di lotta partigiana e poi di militanza e impegno politico.”

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